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INTERVISTA A
WARSCHAWSKI
Di Geraldina Colotti
da www.arabcomint.com
Raggiungiamo
a Gerusalemme l'analista politico Michel Warschawski, 57
anni, uno dei maggiori esponenti della sinistra
radicale israeliana.
D. Lei è stato fra i primi
israeliani a rifiutarsi di prestare servizio
militare fuori dai confini e per questo, durante la
guerra in Libano
dell'82 è stato più volte in carcere. Qual
è la sua analisi oggi?
R. Non si può comprendere questa guerra
d'aggressione contro il Libano,
né l'accanimento contro i palestinesi, in
particolare a Gaza, fuori dal
contesto della guerra permanente e preventiva
intentata dai
neoconservatori di Washington a livello mondiale e
fatta propria da Tel Aviv. L'obiettivo
è quello di imporre l'egemonia nordamericana
nella regione a scapito di regimi
come Siria e Iran e organizzazioni politiche di
massa come Hamas e
Hezbollah, identificate come terroristiche. Ma
questa guerra è stata anche
un laboratorio, in termini di strategia, tattica, e
sperimentazione di armi che Israele ha ricevuto in questi anni da
Washington: anche armi
sconosciute, come abbiamo appreso dal manifesto.
D. Nell'82, in Israele ci fu un forte
movimento di opposizione alla
guerra. Qual' è invece la situazione oggi?
R. Anche oggi il movimento contro la guerra è
attivo, ma purtroppo è
minoritario, non riesce a esercitare egemonia.
Al massimo mobilita 5-6.000
persone. Al suo interno, ci sono forze di
sinistra o di estrema sinistra.
La maggioranza ha meno di 25 anni. Sono quelli
che si sono mobilitati nel
corso di questi ultimi anni contro
l'occupazione, che non hanno creduto alla
propaganda secondo cui il processo di pace
sarebbe fallito per colpa del
'terrorismo palestinese', che hanno compreso
la strategia di
neocolonizzazione messa in atto dal governo.
Sono quelli che si sono
opposti alla costruzione del muro, alla
repressione nei territori occupati, e che
oggi costituiscono la colonna vertebrale del
movimento antiguerra. Ma fra
questi giovani e la mia generazione, quella
dei militanti che si sono
opposti alla guerra in Libano nell'82, c'è un
buco generazionale. Il
movimento contro la guerra, che era riuscito a
farsi sentire davvero
nell'82 e anche nell'88, durante la prima
intifada, in gran parte oggi sostiene
ufficialmente la politica del governo:
sostiene quella che percepisce come
una guerra di autodifesa. Il discorso secondo
cui c'è una minaccia del
terrorismo islamico che incombe sulla
democrazia è ormai maggioritario,
ha distrutto quella grande opposizione alla
guerra, la sua efficacia e la sua
capacità di produrre egemonia in Israele.
Oggi la maggioranza della
società vede nell'esercito l'ultima difesa
contro un nuovo giudeocidio. Alcune
delle unità combattenti più
prestigiose, assomigliano ormai agli squadroni della
morte, specializzate come sono nelle
cosiddette uccisioni mirate, ma la
domanda per entrare a farne parte è
altissima.
D. Perché la società israeliana ha voltato le
spalle alla pace? Le
Rivolgo una domanda che ricorre nei suoi ultimi
libri: Sulla frontiera, edito da
Città aperta; Israele-palestina, edito da
Sapere 2000; A precipizio, Bollati
Boringhieri.
R. Da anni è in corso in Israele una
massiccia campagna per convincere la
società che la pace è un'illusione e che
occorre tornare al cosiddetto
spirito del '48. Una vera controriforma su
tutti i piani (culturale,
ideologica, giuridica e istituzionale), che,
dopo l'11 settembre, ha
incontrato e inglobato la teoria dello scontro
di civiltà e la retorica
della guerra al terrorismo. Alle ragioni
geostrategiche di controllo del
territorio e di annessione continua dell'intera
Palestina storica, si è
aggiunto un altro elemento: a partire dell'11
settembre, anche la
stragrande maggioranza della sinistra
moderata, quello che per voi è il
centrosinistra, pensa che ci sia una
civiltà minacciata dai barbari e che occorra
difendersi. Si crede l'avamposto della
civilizzazione nel cuore del mondo
arabo, l'ultimo baluardo in seno alla
barbarie: questo è il discorso che è
passato.
D. E non riscontra un
atteggiamento speculare anche in certi settori
dell'islamismo radicale?
R. Non sono d'accordo. Ascolto con molta attenzione
Nasrallah e, come
altri commentatori in Israele, constato che i
suoi discorsi sono pacati e
di grande responsabilità: tutto il contrario
dell'occidente che si pretende
baluardo di civiltà e che invece trasuda
retorica fondamentalista. Sembra
di assistere a un capovolgimento di valori: il
campo laico che si abbandona
al fanatismo, e quello religioso che, anche se
parte da una diversa
concezione, fa di tutto per non pronunciare
discorsi confessionali.
D. Nei suoi libri lei parla di disumanizzazione dei
palestinesi e degli
arabi da parte di Israele. Cosa intende?
R. Con l'11 settembre c'è stata una svolta. Fino ad
allora, i palestinesi
venivano percepiti come nemici con cui si
aveva una divergenza profonda,
soprattutto per via della violenza, ma si dava
per possibile che la
questione potesse essere affrontata, che si
dovesse arrivare a una qualche
trattativa concreta. Aver assunto il discorso
dei neoconservatori
americani, ha spinto Israele a un cambiamento
qualitativo: da nemici che erano, i
palestinesi si sono trasformati in minaccia. E
una minaccia non è più
identificabile in un contenzioso concreto e in
un nemico concreto, incombe
e basta e ci si deve difendere. "Israele
è una villa nel cuore della
giungla", ha detto qualche anno fa Ehud
Barak. Si può mai intrattenere rapporti con
la giungla? Questo discorso domina e guida la
politica israeliana e la gran
parte dell'opinione pubblica.
D. Scomparsa l'Unione sovietica, si ha bisogno
di un altro Impero del
male?
R. E' evidente che con la scomparsa del nemico
globale che minacciava il
cosiddetto mondo libero, e cioè l'Urss, e con
l'azzeramento del processo
di pace con i palestinesi, si è dovuto
rimpiazzare il vuoto con una minaccia
apocalittica. Non a caso, riferendosi ad
Al-Qaeda, si parla di nebulosa: un
mostro immateriale. Una guerra, quindi, che
non si può mai vincere perché
il nemico è un fantasma che non può essere
identificato. Solo che la guerra è
reale e fa disastri concreti. Anzi, innesca un
meccanismo difficilmente
controllabile, capace di creare da sé la
minaccia ancora prima che si
presenti. In Israele, questo meccanismo si
innerva su un inconscio
collettivo marcato da un genocidio che è
ancora recente, perché sono
passati appena 60 anni, e che rapidamente
traduce ogni problema politico concreto
in minaccia esistenziale. Non è infatti
razionale credere che qualche razzo
di Hezbollah possa preoccupare davvero
una grande potenza militare come
Israele, al massimo può portare a un certo
livello di destabilizzazione,
ma certo non minaccia l'esistenza del popolo
ebreo come ha sostenuto il primo
ministro israeliano. Però, la propaganda
porta a leggere il presente e la
storia come un immenso pogrom che continua da
millenni e per cui non ci si
può mai fermare: una dinamica di guerra
infinita. Siamo sull'orlo del
baratro e ne stiamo avendo un assaggio.
D. Il suo libro A precipizio, La crisi della società
israeliana, è
dedicato a due comunisti tedeschi,
trasferitisi in Israele per fuggire al
nazismo. Due militanti anticolonialisti. Perché
ha fallito quella
generazione di comunisti in Israele?
R. Micha e Trude hanno trovato rifugio in Palestina
un po' loro malgrado,
pensavano di tornare indietro dopo la
liberazione dal nazifascismo, ma poi
sono rimasti. Da loro, impermeabili a ogni
forma di tribalismo, ho appreso
che l'internazionalismo e l'impegno comunista
sono maniere di essere
cittadini del mondo. Erano migliaia i
comunisti che, prima del '48, si
sono scontrati con una realtà coloniale che
gli ha lasciato poco spazio: non
erano aggrappati all'identità ebraica, ma non
erano arabi. E gli arabi,
anzi, li identificavano col campo avverso. E' la
logica perversa dei
conflitti nazionali. Ti ritrovi tuo malgrado
nei quartieri bombardati
dagli arabi, o viceversa: ci vuole una grande
convinzione per prendersi le bombe
e dire: io sono altro da questo.
D. Lei pensa in questo
modo, ma continua a vivere a Gerusalemme. Perché?
R. Ancora di recente, durante una manifestazione
contro la guerra, sono
stato aggredito dagli estremisti religiosi. Ma
ogni cedimento sarebbe una
tragedia per i nostri figli. La politica di
guerra dei dirigenti israeliani
porta alla catastrofe, e chiude le porte alla
possibilità di una
coesistenza nazionale con i palestinesi. Ci
fanno odiare dagli arabi perché, pur
vivendo in una regione araba, Israele rigetta
il mondo arabo. Bisogna essere pazzi
per credere che possiamo imporre la nostra
esistenza in questa regione
contro il mondo arabo.
D. In un volume edito da Sapere 2000,
Israele-Palestina, la sfida
binazionale, lei - riferendosi a lontane
esperienze intercomunitarie tra
ebrei e musulmani, auspica un nuovo sogno
Andaluso per il XXI secolo. Che
cosa intende?
R. Una comunità può vivere e pensarsi in relazione
con l'ambiente umano
che la circonda, oppure in autarchia. Io penso
che tutto ciò che è
autarchico impedisca ogni sviluppo e marcisca.
Accade così a Israele, che
ha scelto di vivere in autarchia, in una
specie di ghetto armato in pieno
Medioriente, cioè in opposizione al contesto.
Uno dei compiti degli
intellettuali - che oggi, purtroppo, sono
completamente preda della
sindrome da assedio - è di far capire
questo alla gioventù israeliana, insegnare
nelle scuole che le più belle pagine degli
ebrei nel mondo sono quelle in
cui hanno arricchito e si sono arricchiti
della cultura del posto. In
particolare, in Andalusia, in quella che
chiamiamo l'età d'oro degli
ebrei, quando la cultura musulmana e quella
ebraica, e in misura minore quella
cristiana, convivevano in un dialogo proficuo
che ha portato al massimo
sviluppo il Medioevo. E' stata poi la Riconquista
che, dopo la caduta di
Granada nel 1487, ha distrutto tutto. Le
pagine di questa storia non si
insegnano in Israele, farle conoscere, invece,
serve a dimostrare che la
convivenza tra giudei e musulmani è stata
possibile e reciprocamente
feconda.
D. Cosa dovrebbe fare Israele per invertire la
rotta?
R. Intanto, applicare le numerose risoluzioni
dell'Onu, tutte disattese.
Mettere fine all'occupazione. Costruire legami
di coesistenza con i
palestinesi e con la regione in cui si trova,
non fare l'apripista per le
politiche nordamericane. Sul piano politico,
dovrebbe trasformarsi da
stato ebraico a stato di tutti i cittadini,
separare religione e Stato,
statalizzare la terra e finirla con le
discriminazioni etniche. Sostituire
la Legge del ritorno con una legislazione che
consenta il ricongiungimento
familiare e l'immigrazione di tutti, a
cominciare dai profughi
palestinesi.
Prevedere forme di autogestione che
garantiscano l'espressione delle
diversità, in primo luogo quella dei
palestinesi.
D. Nei suoi libri, lei
paragona il processo di Oslo a una sorta di
compromesso storico che non ha funzionato.
Quale via rimane oggi ai
palestinesi?
R. Siamo in un complicato periodo di transizione. Se
mi avesse posto la
domanda qualche anno fa le avrei detto:
qualunque sia la soluzione a lungo
termine, a breve termine deve passare per la
costruzione di uno stato
palestinese e la fine dell'occupazione, la
decolonizzazione della
Cisgiordania, uno stato palestinese a fianco
di quello israeliano, e un
lavoro per arrivare a una forma di
coabitazione più stretta. Ma ora, dopo
la distruzione sistematica nei territori
occupati, che da cinque anni Israele
persegue, e l'accanimento degli ultimi mesi
contro il popolo palestinese,
ho molte difficoltà a rispondere. Cosa fa la
l'Europa perché i palestinesi
abbiano una terra? Cosa fa l'Italia ora che c'è
un governo di
centrosinistra? Molto meno di quanto facevano
i governi democristiani. Per
ora, quindi, vedo un unilateralismo totale che
mira a chiudere la partita
con una seconda nakba. Secondo la politica
dello stato israeliano, esiste un solo popolo, quello ebreo, e un
problema: quello palestinese.
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