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TUTTO LENIN
Il socialismo non è altro che il capitalismo
monopolistico di stato messo al servizio di tutto il popolo e che,
in quanto tale, ha cessato di essere monopolio capitalistico. Non vi
è via di mezzo. La guerra imperialista è la vigilia della
rivoluzione socialista. E non solo perché la guerra con i suoi
orrori genera l’insurrezione proletaria, ma perché il capitalismo
monopolistico di Stato è la preparazione materiale più completa
del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della scala
storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato
socialismo.
VITA E STORIA DI LENIN
Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilic Uianov) era
nato nel 1870 a Simbirsk (oggi Uianovks) e suo padre era un
ispettore scolastico. Gli anni di studio e di adolescenza coincisero
con uno dei periodi più travagliati della storia sociale e politica
della Russia. Il governo zarista dopo l'uccisione dello zar
Alessandro II nel 1881, da parte dei populisti, si era affrettato ad
annullare quelle limitate riforme che erano state introdotte durante
il decennio precedente. In questo clima con Lenin ancora 17enne, il
fratello Alessandro con più anni di lui e a cui era molto
affezionato, viene arrestato e condannato a morte sotto l'accusa di
aver partecipato alla preparazione di un attentato allo zar. Anche
Lenin viene espulso dall'Università di Kazan per la sua adesione a
un circolo studentesco di tendenze rivoluzionarie. Si avvicina allo
studio del marxismo, e in particolare al Capitale di Marx, poi nel
1893 si trasferisce a Pietroburgo entrando in contatto con il
movimento fondato da Plechanov, "Emancipazione nel
lavoro". Movimento che confluisce nel 1898 al Congresso di
Minsk, nel partito operaio socialdemocratico di Russia (POSDR).
Lenin sempre sotto stretta sorveglianza politica, viene alla fine
arrestato e condannato a tre anni con la deportazione in Siberia. E
qui che nel 1899, porta a compimento il suo primo saggio: Lo
sviluppo del capitalismo in Russia; ed è un'altra polemica
contro i populisti. Polemica già iniziata nel 1894 a Pietroburgo
con l'articolo " Che cosa sono "Gli amici del
Popolo" e come lottano contro i socialdemocratici ".
La questione controversa era -sostenevano i populisti- che la Russia
a differenza dell'Europa, sarebbe passata dal feudalesimo al
socialismo, senza attraversare la fase dello sviluppo capitalistico.
La replica di Lenin, fu nel dimostrare con una minuziosa analisi
economica e statistica, che l'agricoltura russa era già entrata
nella fase del suo sviluppo capitalistico; e che l'idea populista di
una rivoluzione contadina, senza la guida della moderna classe
operaia (più sveglia, determinata, consapevole politicamente,
unita, e forte, pur non essendo ancora numerosa) era quindi
un'utopia. Per molti intellettuali radicali, dalla metà
dell'Ottocento, il problema centrale era " ma la Russia è
Europa? ", questo orientamento dei radicali era chiamato narodnik
, da narod popolo; e s'intendevano le masse rurali in cui si
scorgeva la base di una società socialista con una versione
rivoluzionaria di tipo marxista. Invece per altri intellettuali (con
Lenin in prima fila) la Russia faceva parte già dell'Europa o
almeno era in via di europeizzazione, ed era già presente il
capitalismo e quindi già presente quella classe operaia che doveva
prendere la guida della rivoluzione (e fu questo secondo
orientamento rivoluzionario che poi si trasformò in bolscevismo).
La prima domanda posta dai radicali, divise i pensatori russi per
tutto l'Ottocento e continua a dividerli ancora oggi. Ed anche Marx
quella domanda se la pose, e nel 1877 rispose a un saggio di un noto
radicale della linea narod secondo il quale la sua teoria
Marxista presupponeva " lo scioglimento delle comunità
agricole e l'avvento del capitalismo come condizione preliminare
all'affermarsi del socialismo ". Poi Marx dissentì da
questa impostazione enunciando altre alternative; che però
convinsero poco quelli della narod e meno ancora i loro avversari
che seguitarono a guardare in avanti dando ragione solo a quello che
Marx aveva affermato in quelle due righe. Quando Lenin poi ottenne
la sua vittoria politica, costrinse all'esilio chi preferiva il Marx
della prima maniera. Ma le difficoltà nell'attuazione del
socialismo in Russia - sostennero poi i critici di Lenin - sono
insite appunto nel tentativo di realizzare una rivoluzione
proletaria in un paese che era prevalentemente agricolo. Lenin nel
1901 emigrato in Svizzera fondò un periodico rivoluzionario
intitolato Iskra (la scintilla), per guidare e organizzare
all'estero le lotte e le agitazioni degli operai russi. Ma al
secondo congresso del partito socialdemocratico russo, tenutosi a
Londra nel 1903 il partito si spaccò in due fazioni; quella
maggioritaria (bolscevica) capeggiata da Lenin e quella minoritaria
(menscevica) capeggiata da Plechanov e altri: i Menscevichi volevano
instaurare un movimento sul modello della Socialdemocrazia tedesca,
i Bolscevichi guardavano invece alla rivoluzione e volevano un
partito 'di quadri', costituito da pochi esponenti altamente
qualificati che guidassero la rivoluzione. In effetti, in Germania,
dove spazio per la democrazia ve n'era (sebbene poi il parlamento,
con Bismarck, non contasse nulla), poteva avere un senso un
movimento di massa quale la Socialdemocrazia; ma in una realtà
quale la Russia, in cui ogni cosa che si intraprendeva naufragava
miseramente e tutto era dominato dal rigido regime zarista, aveva
molto più senso un movimento elitario a mò di setta segreta, una
sorta di seme sotto la neve , per dirla con Silone, che sotto
la fredda coltre dell'inattivo regime zarista in mano allo stregone
ciarlatano Rasputin, potesse cogliere il momento opportuno per dare
una fioritura magnifica. . Lenin intendeva creare l'organizzazione
del partito con una struttura fortemente centralizzata alla quale
dovevano essere ammessi solo i "rivoluzionari di
professione", non le masse popolari (sul modello della
Socialdemocrazia tedesca). La divisione interna si approfondì in
occasione della rivoluzione del 1905, scoppiata a seguito
dell'ingiuriosa sconfitta inflitta dai Giapponesi ai Russi . I
menscevichi intendevano lasciare la guida della rivoluzione alle
forze della borghesia liberale russa, mentre Lenin pur riconoscendo
il carattere democratico-borghese della rivoluzione, sosteneva che
essa dovesse essere capeggiata dalla classe operaia e dai contadini,
giudicando che la borghesia russa, per la sua debolezza, sarebbe
stata incapace di portare la rivoluzione sino all'abbattimento dello
zarismo e avrebbe sempre ripiegato su un compromesso con la
monarchia e con l'aristocrazia terriera. ' Quando Lenin andò
all'estero all'età di trent'anni ' racconta Trotsky, che
proprio a Londra, dopo essere fuggito dalla Siberia, lo conobbe per
la prima volta, ne La mia vita, ' era già completamente
maturo. In Russia, nei circoli studenteschi, nei gruppi
socialdemocratici e nelle colonie degli esiliati, egli era un
personaggio di spicco. Non poteva non realizzare questo suo potere,
se non altro per il fatto che chiunque lo incontrasse o lavorasse
con lui glielo dimostrava in modo chiaro. Quando lasciò la Russia,
possedeva già un ottimo equipaggiamento teorico ed un solido
bagaglio d'esperienza rivoluzionaria. All'estero, c'erano
collaboratori che lo attendevano: il gruppo di 'Emancipazione del
lavoro' e, primo fra loro, Plechanov […] 'con questi Lenin
entrò presto in contrasto, ' ma Lenin era vigoroso. Tutto ciò
di cui necessitava era la convinzione che i più anziani erano
incapaci di assumersi una leadership diretta dell'organizzazione
militante dell'avanguardia proletaria nella rivoluzione ch'era
chiaramente vicina. I più anziani - e non erano gli unici - si
sbagliavano nel loro giudizio; Lenin non era semplicemente un
rimarcabile lavoratore del partito, egli era un leader, un uomo in
cui ogni fibra era tirata verso il raggiungimento di un fine
particolare, un uomo che infine, dopo aver lavorato fianco a fianco
coi più anziani, aveva realizzato di essere un leader e di essere
più forte e più necessario di loro. Nel mezzo degli ancor vaghi
atteggiamenti che eran comuni nel gruppo che sorreggeva le bandiere
dell'Iskra, Lenin solo, ed in modo definito, concepiva il 'domani',
con tutte le sue severe fatiche, i suoi crudeli conflitti e le
innumerevoli vittime '. Dopo il fallimento della rivoluzione del
1905 (conclusasi in un bagno di sangue per il movimento operaio,
fucilato sulle piazze dalla polizia), si videro i bolscevichi e i
menscevichi impegnati sempre di più in questa aspra polemica; i
secondi si identificavano sempre di più con il movimento di
"revisione" del marxismo rivoluzionario, inaugurato in
Europa occidentale da Bernstein. Ma la rottura definitiva si
completa nella II Internazionale e con lo scoppio della prima guerra
mondiale. La parola d'ordine di Lenin è quella di trasformare la
"guerra imperialista" in "guerra civile": Lenin
era sì convinto che la guerra imperialista fosse un male, ma
tuttavia ne vedeva anche gli aspetti positivi. Tutto stava nel
riuscire a trasformare la guerra in rivoluzione e così
effettivamente fu. Tuttavia il partito bolscevico, a differenza di
quello menscevico, fu contrario alla guerra e la Russia bolscevica,
all'indomani della rivoluzione, pur di uscire dalla guerra
stipulerà accordi con le nazioni nemiche a tal punto sfavorevoli
che Lenin li definirà 'vergognosi'. L'unico scontro conflittuale
riconosciuto dai Bolscevichi era, del resto, lo scontro di classe,
non la guerra, quell'inutile strage contro cui Lenin si scaglia in
chiusura di Stato e Rivoluzione : La deformazione e la
congiura del silenzio intorno al problema dell'atteggiamento della
rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato non potevano
mancare di esercitare un'immensa influenza, in un momento in cui gli
Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni
imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo
sterminio milioni di uomini per decidere chi, tra l'Inghilterra e la
Germania, tra questo o quel capitale finanziario, dominerà il
mondo. Quando scoppia la Rivoluzione in Russia nel febbraio del
1917 Lenin era ancora esule in Svizzera. Rientrato a Pietroburgo con
la sua celebre Tesi di Aprile traccia il programma per
l'abbattimento del governo liberal-democratico nel frattempo salito
al potere dai Cadetti (di ispirazione liberale) e per il passaggio
della rivoluzione alla sua fase socialista. Nei successivi mesi
compone la sua famosa opera Stato e Rivoluzione , poi guida
l'insurrezione di Ottobre che si conclude con la formazione del
primo governo sovietico da lui capeggiato. Gli anni dal 1918 al
1921, sono gli anni del "comunismo di guerra", della
"nuova politica economica", ma anche dei forti contrasti
con Stalin, che Lenin non può più avversare ma di cui ha già
presagito la pericolosità (celebre è lo scritto ' Quello Stalin
è pericoloso ') , gravemente ammalato muore il 21 gennaio del
1924, all'età di 54 anni.
CHE FARE?
Alla fine del secolo diciannovesimo, Lenin
dovette sostenere, prima in Russia e poi all'estero, una dura lotta
contro i "marxisti legali" e gli "economisti".
In quegli anni particolarmente difficili, carichi di contraddizioni
sociali ed economiche, privi di una vera prospettiva rivoluzionaria,
in quanto il movimento socialdemocratico era ancora troppo debole,
soprattutto nei livelli direttivi, il marxismo legale era riuscito a
emergere nella letteratura sottoposta a censura solo perché il
governo zarista, vendendolo impegnato a combattere le idee
populiste, pensava che fosse una corrente meno pericolosa. In
realtà i marxisti legali contribuivano alla diffusione del marxismo
rivoluzionario, benché tale teoria -osserva Lenin- venisse esposta
in un "linguaggio esopico", cioè indiretto, mediato, non
trasgressivo. Il progressivo declino del populismo fece diventare il
marxismo molto popolare in Russia. Lenin e la sua "Unione di
lotta" non disdegnavano l'intesa con i marxisti legali in
funzione antipopulistica, pur essendo consapevoli che tali
pseudo-marxisti erano nati dalla fusione di "elementi
estremisti con elementi molto moderati". Quando infatti -dopo
che il governo s'accorse della loro pericolosità- ci si trovò di
fronte all'alternativa di radicalizzare il taglio rivoluzionario
degli interventi o di rinunciarvi definitivamente, la maggioranza
dei marxisti legali non ebbe dubbi: scelse il revisionismo di
Bernstein. A questo punto la rottura, fra marxismo rivoluzionario e
legale, divenne inevitabile. Gli "ex-marxisti"
continuarono a scrivere su giornali e riviste autorizzati dal
governo, rivendicando una piena "libertà di critica" nei
confronti dello stesso marxismo, ma questa volta con lo scopo
principale di subordinare il movimento operaio agli interessi della
borghesia. Affermavano, da un lato, che lo sviluppo capitalistico in
Russia era una necessità storica, ma, dall'altro, non ne chiedevano
il superamento immediato. Il loro marxismo era "senza
socialismo". Molti di questi "compagni di strada"
-come li chiamava Lenin- diventeranno dei "cadetti" (il
partito principale della borghesia russa) e persino delle
"guardie bianche" durante la guerra civile. Nel tentativo
di superare gli evidenti limiti del marxismo legale, si sviluppò
all'interno del movimento socialdemocratico una corrente più
pratica e concreta, ma unicamente interessata a risolvere i problemi
di natura sindacale: era la corrente che Lenin chiamava col nome di
"economicismo". Non si trattava di una vera alternativa al
marxismo legale ma di un suo complemento. Sul piano
"legale" infatti si continuava a predicare, anche da parte
degli economicisti, la fusione degli intellettuali marxisti coi
liberali, mentre su quello "illegale" si chiedeva agli
operai di lottare sindacalmente contro i padroni. Gli economicisti
-che, come dice Lenin, rifuggivano da qualsiasi " discussione
teorica, dissenso di frazione, ogni vasta questione politica, ogni
progetto di organizzare i rivoluzionari ecc. "- avevano un loro
manifesto: il Credo (redatto dalla Kuskova), che Lenin e altri 17
compagni sottoposero a dura critica scrivendo dalla prigione
siberiana la Protesta dei socialdemocratici russi (1899). Con la
Protesta, pubblicata sul Raboceie Dielo, Lenin rivendicava l'unità
della lotta economica della classe operaia con quella politica e
condannava il revisionismo di Bernstein, che voleva trasformare il
partito operaio da rivoluzionario a riformista, spazzando via
l'ingrediente fonfdamentale del marxismo: la rivoluzione . Lenin e
gli altri autori della Protesta volevano integrare la battaglia
contrattuale della classe operaia con una lotta
politico-rivoluzionaria organizzata in un partito indipendente, che
portasse, anche attraverso il consenso e l'appoggio degli elementi
democratico-borghesi del Paese, all'emancipazione di tutti i
lavoratori oppressi. Nello stesso tempo Lenin scrisse, fra le altre
cose, Il nostro programma , che però rimase inedito fino al 1925.
In esso si costatava che l'opinione dominante in seno alla
socialdemocrazia russa considerava il marxismo rivoluzionario
"invecchiato e inadeguato". L'influenza del revisionismo
si faceva sempre più sentire. Alla stregua di Bernstein ci si
limitava -dice Lenin- ad elaborare "piani per riorganizzare la
società", a proporre "ai capitalisti e ai loro reggicoda
il modo di migliorare la situazione degli operai", a predicare
agli operai "la teoria dell'arrendevolezza". Lenin si
rendeva conto che un'interpretazione dogmatica del marxismo poteva
trasformare questa scienza in una fraseologia senza senso; però
teneva a precisare che qualsiasi critica del marxismo non poteva
andare oltre le "pietre angolari" da esso poste, "i
principi direttivi generali". La teoria di Marx -diceva Lenin
nel Programma- non è qualcosa di "definitivo e di
intangibile"; i socialisti devono anzi farla progredire
"se non vogliono lasciarsi distanziare dalla vita"; ma con
ciò -prosegue Lenin- resta vero che mai potrà esistere "un
forte partito socialista se manca una teoria rivoluzionaria che
unisca tutti i socialisti". Queste idee Lenin, a causa delle
persecuzioni dell'infame regime zarista, dovette portarle avanti
all'estero. Con l'aiuto di molti compagni pubblicò per tre anni il
giornale Iskra. Nell'importante articolo di fondo scritto nel primo
numero, I compiti urgenti del nostro movimento , Lenin, rifiutando
le teorie opportuniste dell'economicismo, rivendicava l'unità del
socialismo col movimento operaio. Solo mediante questa unità si
poteva -a suo giudizio- superare la mera attività propagandistica
esercitata, a livello di circolo, dai socialdemocratici russi negli
ultimi decenni e, nel contempo, evitare che il movimento operaio e
il socialismo cadessero nell'ideologia borghese o degenerassero
nello sterile terrorismo individuale (come quello
dell'organizzazione clandestina "Volontà del popolo",
che, dopo aver assassinato nel 1881 lo zar Alessandro II, venne
immediatamente liquidata dal governo). L'unità, in sostanza, era
indispensabile non solo per l'"ortodossia" del socialismo,
ma anche per la "ortoprassi" del movimento operaio.
"Nessuna classe della storia -dice Lenin nell'articolo
suddetto- ha conquistato il potere senza esprimere dei propri capi
politici, dei propri rappresentanti d'avanguardia capaci di
organizzare e dirigere il movimento". A contatto con le
organizzazioni socialdemocratiche all'estero, Lenin poteva
facilmente rendersi conto di come la tendenza economicistica avesse
acquistato sempre più seguaci. Infatti, dopo il giornale Rabociaia
Mysl, stampato in Russia, anche la rivista Raboceie Dielo, stampata
a Ginevra, decideva, a partire dal numero 10, di compiere la svolta
revisionista verso l'economicismo. Alle giustificazioni ch'essa ne
dava, e cioè: 1) l'inesistenza delle condizioni
"oggettive" per compiere una rivoluzione (donde
l'inutilità di organizzare un partito politico); 2) il timore di
vedere la propria attività equiparata a quella dei terroristi -
Lenin ribatteva dicendo: 1) "si deve lavorare per creare
un'organizzazione combattiva e condurre un'agitazione politica in
qualsiasi situazione", anzi, proprio nei momenti di declino
dello "spirito rivoluzionario" è particolarmente
necessario tale lavoro, "poiché nei momenti degli scoppi e
delle esplosioni non si farebbe in tempo a creare
un'organizzazione"; 2) "oggi il terrorismo non viene
affatto proposto come un'operazione dell'esercito operante,
strettamente legata e adeguata a tutto il sistema di lotta, ma come
mezzo di attacco singolo, autonomo e indipendente da ogni
esercito" (così in due articoli pubblicati nei numeri 23 e 24
dell'Iskra). In altre parole, la situazione di quel momento storico
non era "oggettiva" per la rivoluzione solo in questo
senso, che non si doveva compiere un "assalto frontale"
alle postazioni nemiche prima di aver organizzato debitamente un
"regolare assedio". E, allo scopo -pensava Lenin-, nulla
era più indispensabile di un giornale politico panrusso: ecco
perché era nata l'Iskra. "La maggiore o minore frequenza e
regolarità dell'uscita (e diffusione) del giornale -diceva Lenin,
con grande senso della concretezza- potrà essere l'indice più
esatto della solidità con la quale saremo riusciti a organizzare
[il settore della] propaganda e dell'agitazione multiformi e
conseguenti". La scelta di un giornale politico, comune a tutto
il marxismo rivoluzionario, era stata imposta dalla situazione di
frazionamento localistico del movimento operaio. Essendo
"l'enorme maggioranza dei socialdemocratici quasi completamente
assorbita dal lavoro puramente locale", l'instabilità e
l'incertezza del movimento e dei suoi dirigenti diventavano un fatto
inevitabile. Ciò spiega il motivo per cui il giornale non era nato
solo per svolgere un ruolo di propagandista e agitatore collettivo,
penetrando, attraverso il proletariato, "nelle file della
piccola borghesia urbana, degli artigiani rurali e dei
contadini", che avrebbe conquistato alla rivoluzione: esso
doveva pure svolgere la funzione di "organizzatore
collettivo". Nel senso cioè che la rete di
"fiduciari" del partito preposta alla redazione e
diffusione del giornale, doveva mantenere strettissimi legami
"con i comitati locali (gruppi, circoli) del partito", o
almeno con quelli che desideravano la loro unificazione in un
partito. Attraverso questo lavoro tutti i militanti avrebbero avuto
la possibilità non solo di osservare gli avvenimenti da un punto di
vista nazionale, ma, in virtù dell'organizzazione capillare, anche
l'opportunità d'intervenire direttamente su tali avvenimenti. Gli
stessi militanti insomma dovevano diventare i protagonisti dell'Iskra.
Un altro importante articolo pubblicato sul no 12 del giornale è il
Colloquio con i sostenitori dell'economicismo. Qui Lenin risponde,
approfondendo gli argomenti soprattutto nel capitolo Secondo di Che
fare? , a una lunga lettera che "un gruppo di compagni"
aveva fatto pervenire alla redazione del giornale. In particolare,
Lenin rilevava il fatto che "i dirigenti coscienti sono in
ritardo sullo sviluppo del movimento spontaneo della massa operaia e
degli altri strati sociali". Ai dirigenti, di cui il movimento
dispone, mancano le cose più necessarie: solida teoria, vasti
orizzonti politici, energia rivoluzionaria, capacità organizzativa.
Il grave però è che "dalla fine del 1897 e specialmente
dall'autunno del 1898" -dice Lenin-, cioè proprio quando si è
voluto costituire il partito operaio socialdemocratico, essi hanno
fatto di questi difetti una "virtù", portando il
"ritardo" della coscienza rivoluzionaria al livello di una
"giustificazione teorica". Tutte le questioni che in quel
periodo più urgevano nel dibattito interno alla socialdemocrazia
russa, saranno efficacemente sintetizzate e magistralmente risolte
in Che fare? (1902), il libro più importante che Lenin scrisse
prima della rivoluzione del 1905. Dopo la svolta del Raboceie Dielo
verso l'economicismo, con la quale, fra l'altro, s'impedì
d'unificare le organizzazioni socialdemocratiche all'estero in nome
del marxismo rivoluzionario, Lenin fu costretto a radicalizzare,
anche nello stile letterario, i termini dello scontro. Rendendosi
d'altra parte conto che l'economicismo aveva molto più seguito di
quel che non si credesse, egli non poteva agire diversamente.
L'opposizione fra le due correnti di pensiero era per lui così
netta da imporre una "chiarificazione sistematica" su
tutti gli aspetti fondamentali del dissenso. Proprio nella
drammaticità del confronto con il marxismo "ufficiale",
"dominante", venivano alla luce le indicazioni più sicure
da seguire.
LA CRITICA ALLA LIBERTA' DI CRITICA
La "libertà di critica" è il primo
aspetto che Lenin esamina nella sua importante opera
anti-opportunista Che fare? Trattasi di quella libertà che i
marxisti legali e soprattutto gli economicisti, in Russia, si erano
presi per indurre il neonato Posdr a trasformarsi da rivoluzionario
a riformista. Emulando i colleghi revisionisti di Germania e
Francia, essi chiedevano di rinunciare alla pretesa di dare un
fondamento scientifico al socialismo e di limitarsi ad accettarlo
solo sul piano utopistico, in quanto l'opposizione di principio fra
socialismo e liberalismo era per loro inesistente. Essi inoltre
negavano il fatto della crescente miseria sociale, cioè della
proletarizzazione di ampi strati sociali e dell'inasprimento delle
contraddizioni capitalistiche. Respingevano, in sostanza, la teoria
della lotta di classe e l'idea della dittatura del proletariato. In
un contesto del genere, la "libertà di critica" -pensava
Lenin- altro non significava che "critica borghese di tutte le
idee fondamentali del marxismo". Naturalmente la novità non
era piovuta dal cielo. "Già da tempo -scrive Lenin- si muoveva
contro il marxismo questa critica dall'alto della tribuna e della
cattedra universitaria, in innumerevoli opuscoli e in una serie di
dotti trattati; da decine di anni tutta la nuova gioventù delle
classi colte è stata educata a questa critica". In pratica, la
linea opportunistica del marxismo era stato il risultato di un
trasferimento di concezioni borghesi dalla letteratura liberale a
quella socialista. A livello europeo i migliori rappresentanti di
questa nuova tendenza erano Bernstein, sul piano teorico, e
Millerand su quello pratico. Avvalendosi della "libertà di
critica" come di una rivendicazione politica, essi e gli
economicisti in genere evitavano di confrontarsi con le tesi del
marxismo rivoluzionario, tacciato preventivamente di
"dogmatismo". Ma in tal modo -spiega bene Lenin- la tanto
declamata parola d'ordine, libertà di critica anche nei confronti
del marxismo, "si riduceva all'assenza di ogni critica",
anzi, "all'assenza di ogni giudizio indipendente". Di
nuovo, in realtà, c'era solo questo, che "l'urto delle diverse
tendenze in seno al socialismo si era per la prima volta trasformato
da nazionale in internazionale". Storicamente parlando, gli
economicisti rappresentarono una reazione all'intellettualismo
parolaio dei marxisti legali. Là dove, nell'ultimo decennio
dell'800, si lottò con successo contro il populismo, paventando
però l'idea della rivoluzione proletaria, qui invece si pretendeva
una maggiore concretezza, una più sollecita attenzione ai problemi
di natura sindacale dei lavoratori, benché i tempi -a giudizio di
Lenin- fossero maturi per ben altro che non per una semplice
politica tradunionista. Di fronte alle posizioni rinunciatarie e
rigorosamente circoscritte, a livello sia teorico che pratico, degli
economicisti, Lenin raccomandava anzitutto di "riprendere
[sottoponendolo a critica] quel lavoro teorico appena cominciato
all'epoca del marxismo legale"; dopodiché occorreva rimediare
alla confusione e all'esitazione prodotte dagli economicisti nel
movimento "pratico". "Libertà di critica [per gli
opportunisti] non significa -scriveva Lenin- la sostituzione di una
teoria con un'altra, ma la libertà da ogni teoria coerente e
ponderata, eclettismo e mancanza di principi". Quando una
tendenza del genere diventa dominante nel movimento operaio o
addirittura nel partito, non resta che separarsene - e Lenin operò
appunto in questa direzione. "Ci hanno biasimato -disse- per
aver costituito un gruppo a parte e preferito la vita della lotta
alla via della conciliazione". Ma non si trattava di settarismo
o di frazionismo fine a se stesso. Il fine era quello di realizzare
l'unità della classe operaia con un'avanguardia rivoluzionaria. E
perché questo potesse avvenire "occorreva anzitutto -dice
Lenin- definirsi risolutamente e nettamente" (un'altra
traduzione italiana usa il termine delimitarsi). Quando l'unità di
un partito o di un movimento è palesemente, irrimediabilmente
nociva agli interessi della verità delle masse che aspirano a
liberarsi dallo sfruttamento capitalistico, non resta che
denunciarla, che rompere il suo formalismo e la sua ipocrisia,
ricostituendola su fondamenta più solide, soprattutto più
autentiche. Certo, sarà il consenso delle masse popolari a decidere
dell'efficacia di una iniziativa del genere. D'altra parte
"senza teoria rivoluzionaria -ha detto Lenin- non ci può
essere movimento rivoluzionario": "la predicazione
opportunistica venuta di moda, viene accompagnata dall'esaltazione
delle forme più anguste di azione pratica". Non deve dunque
spaventare l'idea d'essere una piccola minoranza (cosa peraltro
inevitabile agli inizi); è invece indispensabile avere le idee
chiare, saper dove andare, lottare contemporaneamente sul fronte
teorico, politico ed economico - questo l'insegnamento che si trae
dalle prime pagine di Che fare? .
SPONTANEITA' DELLE MASSE E COSCIENZA
RIVOLUZIONARIA
Nell’esordio dell’importante libro Che fare?
, in particolare nel capitolo dedicato alla "libertà di
critica" degli opportunisti, Lenin imposta e conduce la sua
battaglia sul fronte "teorico", un fronte che nel capitolo
2° viene approfondito a livello "filosofico" e
"ideologico", per poi esplicitarsi compiutamente in modo
"politico" nel capitolo successivo e
"organizzativo" negli ultimi due (il primo dei quali di
carattere generale, mentre l’altro -delineante il piano di un
giornale politico panrusso- a titolo esemplificativo). Il capitolo
2° porta come titolo significativo: La spontaneità delle masse e
la coscienza della socialdemocrazia. Lo scopo che lo muove è quello
di dimostrare la validità di una precisa tesi posta nella premessa:
"La forza del movimento contemporaneo consiste nel risveglio
delle masse (e principalmente del proletariato industriale) e la sua
debolezza nella mancanza di coscienza e d’iniziativa dei dirigenti
rivoluzionari". Per "risveglio spontaneo delle masse"
Lenin intende quelle manifestazioni popolari di protesta, tipo
scioperi, tumulti, distruzioni di macchine ecc., che in Russia, a
partire dal 1890, avvennero non con una coscienza esatta della
natura dello sfruttamento, ma con l’istinto, giunto a maturazione,
di ribellarvisi senza indugio. Il sentire la necessità di una
resistenza collettiva, ovvero il bisogno di rompere risolutamente
"con la sottomissione servile all’autorità", faceva
parte appunto di quegli atteggiamenti "di disperazione e di
vendetta" che, se solo fosse esistita una direzione cosciente e
attiva degli intellettuali, avrebbero potuto aprire le porte alla
lotta rivoluzionaria vera e propria. "L’elemento spontaneo
infatti non è che una forma embrionale della coscienza". Lenin
non sta qui a discutere, in astratto, su quale debba essere il
rapporto ideale tra spontaneità delle masse e coscienza dei
dirigenti. Il problema, per lui, non stava neppure nel criticare
quei dirigenti che non avevano saputo prevedere l’evolversi dei
tempi. Certo, questo era un difetto che andava corretto. Ma il
problema più grave da risolvere restava un altro, e precisamente
quello di come valorizzare la spontaneità delle masse portandola a
un livello di consapevolezza politica, tale per cui l’istintiva
protesta fosse indotta a rifiutare una semplice opposizione
"legale" o "settoriale" al sistema. Per Lenin
ciò che più contava era che il dirigente sapesse convincere le
masse ad avvertire i loro interessi generali e quelli del sistema di
sfruttamento come direttamente antitetici. In effetti, per cambiare
qualitativamente la situazione non basta la coscienza di sentirsi
sfruttati, né quella di voler reagire in qualche modo: occorre
piuttosto -dice Lenin- avere coscienza che l’antagonismo fra gli
interessi degli operai e di tutto l’ordinamento politico-sociale
capitalistico è irrimediabilmente inconciliabile. Cioè l’antagonismo
tra capitale e lavoro non è relativo ma assoluto. Questo significa
che se le masse si limitano a una protesta spontanea e locale, al
massimo riusciranno ad ottenere una parziale vittoria sul terreno
economico, potranno cioè sentirsi soddisfatte d’aver conseguito
nell’immediato determinati obiettivi contrattuali, ma in nessun
modo esse saranno riuscite ad eliminare i motivi di fondo che le
obbligano, con maggiore o minore frequenza e intensità, ad avanzare
queste ed altre rivendicazioni. Ora, perché le masse si rendano
conto della realtà di questo irriducibile antagonismo non basta
-dice Lenin- che la loro situazione economica peggiori
drammaticamente: occorre anche che vi siano dei dirigenti capaci d’iniziativa
rivoluzionaria sulla base d’una teoria scientifica, oggettiva. Le
masse cioè, in virtù dell’apporto di questi dirigenti, devono
arrivare a trasformare la loro lotta sindacale in una lotta
generale, rivoluzionaria, per la conquista del potere politico. E
perché questo accada occorre ch’esse abbiano la coscienza esatta
dei termini dell’antagonismo. Una coscienza del genere può essere
il frutto solo di uno studio approfondito, scientifico, uno studio
che l’operaio normalmente non fa, sia perché non ne ha il tempo
materiale, sia perché non rientra nei suoi immediati interessi.
"La classe operaia, con le sole sue forze -dice Lenin-, è in
grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionistica, cioè la
convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la
lotta contro i padroni ecc.". Ma in tal modo essa non giunge
mai a considerarsi in "alternativa" a tutto il sistema:
lotta sì contro il capitale ma sentendovisi legata. Il fatto stesso
di dover lavorare alle sue totali dipendenze, subendone i ritmi e le
condizioni di lavoro, le impedisce di assumere una posizione
radicale, capace di trasformare la rivendicazione economica in una
lotta politica di carattere generale. Ecco perché la coscienza
rivoluzionaria "può essere apportata alla classe operaia solo
dall’esterno". Da chi precisamente? Da quell’intellettuale
(od operaio colto) che dopo aver compreso il carattere
inconciliabile delle contraddizioni capitalistiche, si dedica a
tempo pieno, sostenuto dal partito, alla lotta
politico-rivoluzionaria, organizzando le forze di quelle classi
sociali i cui interessi sono antagonistici agli interessi del
capitale. Un operaio "cosciente", cioè un operaio che sa
quanto l’emancipazione della sua classe corrisponda all’emancipazione
di tutti i lavoratori, è un operaio che deve essere valorizzato
più come "militante" del partito che non come
"lavoratore" della fabbrica. L’ideologia politica che
aiuta meglio a comprendere la necessità di un rivolgimento totale
della società è -come noto- il socialismo scientifico. "La
dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche,
storiche, economiche che furono elaborate -dice Lenin- dai
rappresentanti colti delle classi possidenti, gli
intellettuali". Anche in Russia il socialismo scientifico è
sorto "come risultato naturale ed inevitabile dello sviluppo
del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari".
Lo sviluppo della teoria, pur basandosi sulla prassi storico-sociale,
procede indipendente da questa e può giungere a intravedere delle
soluzioni finali ai problemi fondamentali delle classi sociali,
mentre la coscienza di tali classi è ancora ferma a un tipo di
lotta parziale, riduttiva, contro il capitale. Ciò che il leader
rivoluzionario deve assolutamente evitare è che lo sviluppo
spontaneo delle masse arrivi a soffocare -seppure in modo spontaneo-
lo sviluppo della loro propria coscienza. Quando si è consapevoli
dell’irriducibile antagonismo fra capitale e lavoro non si può
mai giustificare lo spontaneismo delle masse adducendo, come
pretesto, la mancanza di condizioni oggettive per la rivoluzione. Se
queste condizioni mancassero non vi sarebbe neppure la loro
coscienza riflessa. "Se certi elementi spontanei dello sviluppo
-dice Lenin- sono accessibili in generale alla coscienza umana, l’errata
valutazione di essi equivarrà a una sottovalutazione dell’elemento
cosciente. E se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne
possiamo parlare". Il che vuol dire, in altre parole: se il
dirigente non prende coscienza dello sviluppo spontaneo della
rivolta, quando questa c’è, non sottovaluta l’elemento
spontaneo, ma la sua stessa coscienza. Ora, sottovalutare la
coscienza rivoluzionaria significa subordinare il movimento alla
spontaneità e questo, nelle condizioni del capitalismo, significa,
inevitabilmente -come dice Lenin- determinare "un rafforzamento
dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai". Ciò
in quanto: 1) "in una società dilaniata dagli antagonismi di
classe non potrebbe mai esistere un’ideologia al di fuori o al di
sopra delle classi"; 2) "l’ideologia borghese è ben
più antica di quella socialista, è meglio elaborata in tutti i
suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di
mezzi di diffusione". Ecco perché "quanto più giovane è
il movimento socialista di un determinato Paese, tanto più energica
dev’essere la lotta contro tutti i tentativi di consolidare l’ideologia
non socialista". Né si deve pensare che il pericolo dell’"imborghesimento"
degli operai sia infondato solo perché essi vanno
"spontaneamente" verso il socialismo. Che essi ci vadano
è dovuto al fatto che la teoria socialista sa meglio interpretare
le cause di tutti i loro mali; cionondimeno, se l’adesione
immediata, istintiva, non viene approfondita in sede scientifica e
non trova nella prassi un adeguato impegno rivoluzionario, l’ideologia
borghese, che è "la più diffusa e che resuscita costantemente
nelle più svariate forme", non tarderà a imporsi nuovamente,
spontaneamente, alla coscienza dell’operaio. Paradossalmente è
proprio il movimento meramente spontaneo delle masse che conduce al
rifiuto (inconsapevole) del socialismo. In sintesi, la teoria
riflette sempre una realtà che la precede, ma essa la riflette
adeguatamente solo se sa portare la realtà stessa a un livello di
autoconsapevolezza critica. Traendo insegnamento dagli errori
interpretativi compiuti nel passato, il socialismo scientifico deve
saper portare la spontaneità del movimento operaio ad un livello
cosciente e rivoluzionario. La spontaneità è la forma istintiva,
immediata di lotta: "I primi mezzi di lotta che cadono
sottomano saranno sempre nella società contemporanea
[capitalistica] i mezzi tradunionistici". Lenin tuttavia non ha
alcuna intenzione di accusare lo spontaneismo in sé: la sua critica
è rivolta a quegli intellettuali che lo giustificano per impedire
agli operai di sviluppare una coscienza veramente rivoluzionaria.
Egli infatti afferma che "quanto più è grande la spinta
spontanea delle masse, quanto più il movimento si estende, tanto
più aumenta, in modo incomparabilmente più rapido, il bisogno di
coscienza nell’attività teorica, politica e organizzativa".
L’intellettuale che non comprende questo fa, anche senza volerlo,
gli interessi del capitale. "Dal fatto che gli interessi
economici esercitano una funzione decisiva non consegue affatto che
la lotta economica (professionale) sia di sommo interesse, poiché
gli interessi essenziali, "decisivi", delle classi possono
essere soddisfatti solamente con trasformazioni politiche
radicali". E’ da questa e da altre analoghe affermazioni di
Lenin, contenute in Che fare?, che si è compreso come nell’imperialismo
si sia attuato, nell’ambito del marxismo, il passaggio dal primato
dell’economia a quello della politica.
LENIN E CHE FARE?
E' impressionante la sicurezza con cui Lenin
afferma, in Che fare? , che la coscienza politica di classe può
essere portata all'operaio solo dall'esterno, cioè dall'esterno
della lotta economica o della sfera dei rapporti contrattuali tra
operai e imprenditori: ‘ la coscienza politica di classe può
essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno
della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra
operai e padroni ‘ egli scrisse. Perché questa necessità?
Perché l'operaio che lotta sindacalmente contro l'imprenditore
capitalistico non ha per questo la consapevolezza che la sua stessa
lotta economica, se non si traduce in lotta politica, non serve che
a perpetuare il suo sfruttamento. "La politica tradunionistica
della classe operaia -dice Lenin- è precisamente la politica
borghese della classe operaia". Ora, un operaio che ha
consapevolezza di questo non può continuare a fare l'operaio: deve
lottare per un fine superiore, organizzando la propria attività in
modo politico. "Le masse non impareranno mai a condurre la
lotta politica fino a quando non contribuiremo a educare dei
dirigenti per tale lotta, sia fra gli operai colti che fra gli
intellettuali". Ma come può un operaio passare dalla lotta
economica a quella politica? Egli deve acquisire la consapevolezza
che tutta la società borghese va superata e non solo il suo
rapporto contingente coll'imprenditore. Se non ha consapevolezza di
questa necessità di ordine generale, se non ha rinunciato a tutte
le illusioni sulla possibilità di "riformare" la società
borghese, egli continuerà per tutta la vita a chiedere aumenti
salariali o migliori condizioni di lavoro, senza mai riuscire a
superare l'idea in sé dello sfruttamento. Noi invece -dice Lenin-
"dobbiamo occuparci di spingere coloro che sono insoddisfatti
[di singoli aspetti sociali] a convincersi che quel che non va è
l'intero regime politico". Ma, di nuovo, come può l'operaio
acquisire tale consapevolezza politica? E' forse l'intellettuale che
deve dargliela? Un intellettuale staccato dalle classi sociali non
è in grado di fare alcunché. Lenin dice chiaramente che "per
dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono
andare fra tutte le classi della popolazione". Ciò in pratica
significa che la coscienza politica della necessità di superare in
maniera globale la società, può essere solo il frutto di una
sensibilizzazione di tutte le classi popolari. Ovvero, quando la
stragrande maggioranza è convinta che la società nel suo complesso
va superata, ecco che allora si realizza il socialismo. La
consapevolezza politica deve maturare nelle masse in modo
progressivo, ma chi già la possiede non deve aspettare ch'essa
maturi da sola. Egli anzi deve "reagire -dice ancora Lenin-
contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione, ovunque
essa si manifesti e qualunque sia la classe o la categoria sociale
che ne soffre". L'operaio cioè di per sé, solo perché
"operaio", non ha maggiore consapevolezza politica di chi
non lo è.
LA COSCIENZA DALL'ESTERNO
Perché, secondo Lenin, gli operai non possono
avere "la coscienza dell’irriducibile antagonismo fra i loro
interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale
contemporaneo" ? Risposta: perché tale coscienza non riesce a
sorgere in loro spontaneamente, naturalmente, ma deve essere data
"dall’esterno", dall’intellettuale consapevole. Lenin
arriva a porsi questa domanda guardando la storia del movimento
operaio russo, euroccidentale e mondiale. Questa storia dimostra che
"la classe operaia con le sole sue forze è in grado di
elaborare soltanto una coscienza tradunionista", cioè
sindacale. Perché questo limite? Per due ragioni: 1) all’operaio
manca il tempo di farsi una consapevolezza teorica dell’irriducibile
antagonismo tra lavoro e capitale (non dispone cioè delle
condizioni materiali favorevoli); 2) il capitalismo, stando al
potere, è in grado di disporre d’ingenti mezzi per propagandare l’ideologia
borghese, che è molto più antica di quella socialista: chi detiene
il potere materiale detiene anche quello ideologico. Dunque al
massimo l’operaio arriva a "sentire", a
"percepire" il suddetto antagonismo, ma non arriva
-proprio perché il lavoro da schiavo e il condizionamento dell’ideologia
borghese glielo impediscono- a maturare la consapevolezza della
necessità di un’alternativa organica, globale, al sistema
dominante. Questo è un compito che spetta ai rivoluzionari di
professione. "La dottrina del socialismo -dice Lenin- è sorta
da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono
elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli
intellettuali". Ciò significa ch’esiste un processo autonomo
del pensiero, indipendente "dallo sviluppo spontaneo del
movimento operaio", che porta alla consapevolezza della
necessità del socialismo. Gli intellettuali progressisti arrivano a
"comprendere" sul piano teoretico ciò che gli operai
arrivano a "sentire" su quello pratico. Cosa proponeva
Lenin? Due cose: 1) permettere anzitutto agli operai dotati di
capacità intellettuali, di dedicarsi esclusivamente all’attività
politica del partito (le capacità ovviamente vanno dimostrate,
cioè possono essere riconosciute solo a-posteriori); 2) far
convergere la teoria rivoluzionaria degli intellettuali verso la
protesta sindacale degli operai, al fine di creare un movimento di
massa capace di prassi rivoluzionaria. Altrimenti la teoria resterà
utopica e la prassi velleitaria. Lo sviluppo coerente di queste due
condizioni è in grado di evitare due pericoli: 1) quello di credere
che la coscienza dell’irriducibile antagonismo sia un processo che
possa maturare solo "dall’esterno" e non anche
"dall’interno"; 2) quello di credere che senza
"teoria rivoluzionaria" possa esserci una "prassi
rivoluzionaria", ovvero che una "teoria
rivoluzionaria", per funzionare praticamente, possa essere
formulata una volta per tutte, e non continuamente riformulata. L’elemento
spontaneo e quello consapevole devono quindi integrarsi in un’unica
esperienza. Lenin aveva così chiarito il motivo fondamentale per
cui, a suo parere, erano falliti tutti i tentativi rivoluzionari
condotti in Europa occidentale e in Russia. Ma mentre in Russia si
arrivò ad accettare questo suo nuovo modo d’impostare la lotta
politica, in Europa invece, in un modo o nell’altro, lo si è
sempre rifiutato: sia perché l’individualismo non permetteva di
accettare, da parte degli operai, l’idea di una consapevolezza
trasmessa dall’esterno; sia perché l’intellettualismo non
permetteva di accettare, da parte degli intellettuali, la
responsabilità di dover organizzare lo sviluppo di tale
consapevolezza in un’esperienza politico- rivoluzionaria.
L'INCONSCIO IN LENIN
Qualunque attività (persino quella onirica) ha
un significato per il soggetto solo se egli è consapevole. La
psicanalisi ha sì scoperto l'inconscio, ma nella misura in cui ha
preteso di conoscerlo lo ha reso "conscio", intelligibile.
L'inconscio era sicuramente più oscuro e misterioso in quei
filosofi romantici tedeschi che ne parlarono prima della psicanalisi
(Herbart, Hartmann, Brentano e altri ancora). L'analogia tra questi
filosofi e Freud sta nell'aver delineato, dopo aver costatato le
contraddizioni della civiltà borghese, un'identità irrazionale
dell'inconscio, senza però riuscire a comprendere l'origine
economico-sociale di tali contraddizioni; la differenza sta
nell'aver cercato di dimostrarlo con esempi concreti: sotto tale
aspetto, l'importanza di Freud è decisamente superiore, anche se le
sue interpretazioni dei sintomi nevrotici sono spesso arbitrarie. In
particolare, Freud ha dimostrato (e qui la differenza da quei
filosofi tedeschi è molto netta), che se l'inconscio fosse
assolutamente "inconscio", nessuno ne potrebbe parlare,
essendo del tutto incomprensibile. In seguito però, Freud è
arrivato a sostenere che gli effetti dell'inconscio possono essere
rilevanti anche su un soggetto che non ha consapevolezza della
propria malattia, in quanto l'Es (fonte di tutti gli istinti) è una
forza cieca e irrazionale. Cioè, in pratica, Freud non ha mai
abbandonato l'idea tradizionale che l'inconscio fosse una realtà,
in ultima istanza, incomprensibile. Questo non gli ha mai permesso
di approfondire adeguatamente l'idea secondo cui le nevrosi più
significative sono quelle per le quali il soggetto è cosciente
della propria alienazione: maggiore è la coscienza e maggiore è la
nevrosi, se con una diversa esperienza disalienante non la si
risolve. Il che apre le porte alla comprensione del campo delle
psicosi, il cui profondo significato sfugge ancora all'indagine
analitica. La psicanalisi pretende di conoscere l'inconscio
attraverso i sogni, i lapsus, gli errori di lettura, le dimenticanze
dei nomi, i tic, le manie..., ma in realtà l'inconscio può essere
conosciuto solo in rapporto alla coscienza. Un lapsus ci indica che
esiste un inconscio, ma finché non parliamo col soggetto, a partire
dal lapsus, interrogandolo sul perché e sul come, noi non faremo un
passo avanti. La stessa follia è il frutto di una coscienza
distorta delle cose, anche se il soggetto non vuole ammetterlo e ha
rimosso nell'inconscio le cause della sua malattia. Non è possibile
risalire a queste cause se non passando attraverso la coscienza del
malato. Se vogliamo, l'inconscio non ha realtà propria: è come la
tasca in cui la mano si nasconde dopo aver gettato il sasso.
Nascondiamo la mano perchè ci sentiamo giudicati, da noi stessi e
soprattutto dagli altri. Naturalmente è anche possibile che
un'azione negativa sia compiuta da un'intera collettività, più o
meno grande: in tal caso dovrà essere una coscienza sociale
alternativa (che può anche essere minoritaria) a porre il giudizio.
L'inconscio, in ogni caso, resta subordinato alla coscienza. Ciò
che inoltre si deve accettare è l'idea che non è l'inconscio che
può avere la forza di opporsi all'alienazione di una determinata
coscienza sociale, ma è la stessa coscienza, la quale può essere
superficiale, istintiva, o riflessiva, matura. Parlare di
"opposizione inconscia" (p.es. a una ingiustizia, a
un'etica formalizzata) altro non vuol dire che parlare
dell'opposizione più superficiale della coscienza, destinata a
durare poco e a non essere molto efficace. Questo viene in mente
leggendo il Che fare? di Lenin (cap.II). "L'elemento spontaneo
-dice Lenin- [cioè poco consapevole, istintivo, di cui non si ha
ancora piena coscienza e che non permette di acquisirla] non è che
la forma embrionale della coscienza". E ancora: "La
coscienza dei propri errori [fatti coll'istinto e quindi solo
parzialmente consapevoli] equivale già ad una mezza correzione
[cioè ad un aumento del lato conscio], ma il mezzo male [cioè la
scarsa consapevolezza] diventa un male effettivo quando questa
coscienza comincia ad oscurarsi, cioè quando si tenta di
giustificare teoricamente la propria sottomissione servile alla
spontaneità [o all'inconscio]". Lenin voleva dire che il
"mezzo male" (o la mancanza di forte consapevolezza),
viene utilizzato dagli intellettuali borghesi, regressivi, come
pretesto per non prendere consapevolezza dei propri errori (il che
porta a un "male intero"). Il "vero male",
quello "totale", nasce quando si vuole imporre la logica
dell'inconscio alla coscienza, cioè quando si vuole opporre
all'esigenza di un'alternativa, di una transizione, la logica della
rassegnazione, dell'opportunismo, del relativismo, sino
all'irrazionalismo. Tuttavia, il male peggiore di tutti -dice Lenin-
è quello per cui "il soffocamento della coscienza da parte
della spontaneità avviene in modo spontaneo, cioè senza lotta
dichiarata fra due concezioni diametralmente opposte", ma
attraverso una "lotta occulta", invisibile, difficilissima
da combattere. Vi sono degli intellettuali, infatti, che, in piena
coscienza, cercano di far passare alle masse, in un modo che dia
l'impressione della naturalezza, l'esigenza di conservare inalterato
il sistema. Questa tattica porta gli individui a credere che il
prevalere dell'inconscio sulla coscienza delle cose, sia un fatto
normale, inevitabile, e non un fatto opinabile, su cui si può e si
deve discutere. Lasciare che l'inconscio predomini significa
affidarsi alla spontaneità degli eventi, alla casualità del vivere
quotidiano, non avere un progetto di vita su di sé, credere
ciecamente nel destino o nel potere di un "duce", ovvero
lasciarsi dominare dai rapporti di forza. In realtà è la
discussione ad essere inevitabile: potrà essere poca o tanta, in
rapporto alla coscienza che abbiamo dei nostri problemi, ma è
impossibile che non ci sia. Una vita affidata alla spontaneità
delle cose può far contento qualcuno, non la maggioranza delle
persone o comunque non per un periodo illimitato. Finché queste
persone istintive sono ignoranti e sottomesse, non vi sarà
dibattito democratico, ma appena inizia ad aumentare la
consapevolezza e la cultura, grazie alle quali possiamo capire gli
inganni, i meccanismi dello sfruttamento, la protesta s'impone da
sé, anche di fronte alla reazione più dura del sistema. "Se
certi elementi spontanei dello sviluppo [sociale] sono accessibili
in generale alla coscienza umana -dice Lenin-, l'errata valutazione
di essi equivarrà a una sottovalutazione dell'elemento cosciente. E
se sono inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo
parlare". Dunque, ciò che condiziona negativamente non è
tanto l'inconscio, quanto piuttosto il suo prevalere (specie quello
teorizzato dagli intellettuali) sulla coscienza. Ecco perchè la
spontaneità delle masse esige da parte degli intellettuali
progressisti un alto grado di coscienza politica.
CENTRALISMO E DEMOCRAZIA
Nella storiografia marxista spesso si notano dei
giudizi positivi circa il fatto che lo sviluppo degli Stati borghesi
implicò la fine delle autonomie locali e regionali, in quanto -si
afferma- senza la centralizzazione dei poteri difficilmente la
borghesia avrebbe potuto avere la meglio su feudatari e clero.
Tuttavia, la stessa storiografia, subito dopo aver costatato il
successo della centralizzazione politica, afferma che proprio essa
creò nuovi problemi, nuove contraddizioni antagonistiche, che
finirono col danneggiare soprattutto gli interessi dei ceti non
proprietari. Questo modo di vedere le cose oggi può essere
considerato superato, poiché una qualunque forma di
centralizzazione dei poteri (anche la più progressista sul piano
ideologico), senza una forte democratizzazione a livello locale e
regionale, porta sempre a favorire gli interessi di una ristretta
minoranza (anche se le intenzioni originarie andavano nella
direzione opposta). Lenin si accorse subito di questo pericolo, ma
non ebbe il tempo per scongiurarlo (il suo testamento politico,
purtroppo, non venne neppure preso in considerazione). La
centralizzazione non può servire a giustificare il superamento più
agevole del passato regime, se in tal modo si rischia di
compromettere, anche nel breve periodo, l’interesse della
maggioranza dei cittadini. Il socialismo sovietico fu favorevole
(anche con Lenin) al centralismo, al fine di combattere meglio l’aristocrazia
feudo-clericale e la borghesia, e pensò che nel lungo periodo -dopo
la vittoria sulla controrivoluzione- le masse avrebbe beneficiato di
una ricaduta positiva delle conquiste rivoluzionarie. Ma tale
ricaduta, in realtà, non si è mai verificata, se non in termini
molto limitati (relativamente alla situazione socioeconomica,
poiché in quella delle libertà civili e politiche la ricaduta non
ci fu per nulla). Oggi bisogna affermare che il centralismo può
essere condiviso solo a condizione che si affermi, nel contempo, un’ampia
democrazia di base e che, in ogni caso, il centralismo ha senso solo
se è funzionale alla democrazia e non questa a quello. Nessun
centralismo può vincere l’antagonismo sociale e politico senza l’appoggio
delle masse.
DALLE TESI D'APRILE A STATO E
RIVOLUZIONE
Nel 1917 Lenin ritorna in Russia dall’esilio
svizzero, godendo dell’appoggio del governo tedesco, che ha
astutamente capito che nel partito bolscevico (favorevole alla pace)
può sperare una breve uscita della Russia dallo scacchiere bellico.
Rientrato in Russia, Lenin trova un partito bolscevico dalle idee
confuse e decide di stabilizzarlo sfruttando la propria abilità di
teorico marxista. Ed è per questo che egli pubblica le celeberrime
Tesi d’aprile . In esse si affrontano molti dei problemi che
travagliavano la Russia: in primis, come effettuare una rivoluzione
in un paese tanto arretrato quale era la Russia. I Menscevichi, in
sintonia con il pensiero marxiano, intendevano fare la rivoluzione
solo dopo il pieno sviluppo del capitalismo, poiché ritenevano
assurdo fare la rivoluzione ancor prima che si fosse giunti al
capitalismo. Lenin la pensava diversamente: ci voleva una
rivoluzione immediata, senza passare per il capitalismo, il che
sembra assurdo poiché non ha senso fare la rivoluzione socialista
in un paese dove non c’è il capitalismo. Ma Lenin sosteneva l’esigenza
della rivoluzione proprio per questo: in un paese che di più
arretrati non ce n’erano, non aveva senso alcuno che a governare
fosse la borghesia. Ne venne fuori una situazione paradossale, in
disaccordo con le previsioni di Marx: la piena industrializzazione
russa doveva essere gestita non dalla borghesia (come era avvenuto
in tutti i paesi europei), bensì dal proletariato. Lenin ci tiene a
precisare che il capitalismo non è un fatto di un singolo paese,
bensì è un processo di portata mondiale, sicchè non ci si deve
aspettare la rivoluzione da paesi capitalisticamente progrediti
(quali la Germania o l’Inghilterra), ma dal più arretrato e
feudale di tutti (la Russia appunto), poiché essa è ‘ l’anello
debole ‘ della catena del capitalismo mondiale. La rivoluzione
sarebbe dunque divampata in Russia (il paese più arretrato) per poi
coinvolgere l’intero mondo, trovando il suo epicentro in paesi
progrediti quali la Germania o l’Inghilterra: non è dunque
corretto parlare di tante e singole rivoluzioni, bensì vi è una
sola grande rivoluzione, destinata ad abbattere l’unico
capitalismo che infesta il mondo. E del resto, notava Lenin, se la
rivoluzione avesse attecchito solo in Russia, una volta terminata la
guerra, le grandi potenze reazionarie europee si sarebbero
coalizzate per estinguerla brutalmente. Questo ci permette di capire
come il Lenin delle Tesi d’ aprile avesse in mente un’idea che
verrà poi meglio esplicitata da Trotsky : l’idea di ‘rivoluzione
permanente’, che altro non era che la convinzione che la
rivoluzione dovesse svilupparsi in tutto il mondo per annientare in
esso il capitalismo. Una delle grandi novità proposte da Lenin
nelle Tesi d’aprile fu la parola d’ordine ‘ il potere ai
soviet ‘: aveva dichiarato aperta ostilità al governo provvisorio
di Kerenskij, in nome della lotta intransigente contro la guerra,
definita come imperialista indipendentemente dall’assetto politico
del paese e aveva espresso la volontà di trasformare il partito di
forza minoritaria in forza di maggioranza, guida di una nuova
rivoluzione, quella appunto destinata a conseguire il potere ai
soviet. Secondo Lenin il partito bolscevico doveva ‘ spiegare alle
masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro
bisogni pratici, gli errori della loro tattica […], sostenendo in
pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai
consigli dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dai
loro errori sulla base dell’esperienza ‘. Una parola d’ordine
che comportava il massimo di democrazia diretta e di autogoverno per
le masse popolari veniva così sostenuta attraverso l’esaltazione
del ruolo del partito, posto implicitamente al di sopra delle masse
stesse, alle quali doveva insegnare a vincere. L’iniziativa
spontanea delle masse, che aveva portato ai soviet (Lenin riconobbe
sempre il carattere spontaneo delle nuove organizzazioni), doveva
assoggettarsi alla direzione del partito: le masse potevano
sbagliare, anzi il loro cammino era disseminato di errori, mentre il
partito era infallibile. La concezione di Lenin sulla rivoluzione
era nettamente diversa da quella di tutte le altre forze socialiste,
poiché infatti Lenin, come accennavamo, voleva arrivare
immediatamente al regime socialista, senza passare per il
capitalismo. In una delle prime Tesi d’aprile egli dice che ‘ l’originalità
dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima
fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa
dell’insufficiente grado di coscienza del proletariato alla
seconda fase che deve dare il potere al proletariato e agli strati
più poveri dei contadini ‘. Lenin voleva arrivare al socialismo
bruciando le tappe del capitalismo per diversi motivi: uno di questi
consisteva nella convinzione che la guerra avesse creato una crisi
profonda degli equilibri politici e dei rapporti di forza nella
società in tutta Europa. La Russia sarebbe stato il punto di
partenza della rivoluzione che avrebbe presto (secondo Lenin)
raggiunto tutto il pianeta proprio perché essa era l’anello
debole della catena imperialista, ovvero era il paese in cui il
rovesciamento del potere esistente era più facile e rapido. Questa
tesi era già stata sostenuta con grande precisione da Lenin, nel
marzo 1917, dall’esilio svizzero: ‘ la Russia è un paese
contadino, uno dei paesi più arretrati d’Europa. Il socialismo
non vi può vincere direttamente e immediatamente. Ma il carattere
contadino del paese […] può dare alla rivoluzione democratica
borghese in Russia un’ampiezza formidabile e far sì che la nostra
rivoluzione sia il prologo della rivoluzione socialista mondiale,
sia un passo verso di essa ‘. Giocava poi a favore della Russia un
altro fattore, notava Lenin: la rivoluzione in Russia non avrebbe
assunto il carattere di rivoluzione proletaria (come nel resto d’Europa),
non sarebbe cioè stata una ribellione di una sola classe sociale
(gli operai), ma della stragrande maggioranza della società (operai
e contadini), all’interno della quale il partito bolscevico doveva
avere un ruolo di guida. Considerando il nuovo stato come il potere
della stragrande maggioranza del popolo, contrapposto ad un’esigua
minoranza (sia pure la minoranza degli ex privilegiati), Lenin
vedeva nel parlamentarismo un inutile orpello, reso oltre tutto
antiquato dalle trasformazioni politiche in tutto il mondo. La
formula ‘ dittatura democratica degli operai e dei contadini ‘
riassumeva bene il concetto: si sarebbe dovuto trattare di una
dittatura, poiché non avrebbe lasciato alla minoranza borghese e
aristocratica il diritto di opporsi, ma democratica poiché avrebbe
comunque rappresentato la stragrande maggioranza della popolazione.
Di questa dittatura democratica i soviet sarebbero stati la migliore
espressione ed è per questo che nelle Tesi d’aprile campeggia il
motto ‘il potere ai soviet’. Oltre che nelle Tesi, Lenin tratta
dello stato anche in un altro suo scritto, intitolato Stato e
Rivoluzione (composto nell’estate del 1917) , in cui sostiene che
la rivoluzione deve mettere lo stato in mano al proletariato, ovvero
al partito del proletariato poiché il Bolscevismo è un partito di
quadri. Lo stato non viene abolito, bensì resta ed è strumento
della dittatura del proletariato: qualsiasi regime è sempre, per
definizione, la dittatura di una classe sulle altre, anche quando si
dà una maschera democratica (il regime pre-rivoluzionario è per
esempio dominio della borghesia). Si tratta dunque non di instaurare
una dittatura, ma di passare da una dittatura ad un’altra: da
quella borghese a quella proletaria. Ed è una dittatura ‘democratica’
perché a favore della stragrande maggioranza contro pochi contrari.
Dopo un po’ di tempo di tale dittatura, però, lo stato porterà
all’eliminazione definitiva delle vecchie classi sociali
(borghesia in primis), sicchè verrà meno il conflitto di classe
(non essendoci più classi antagoniste) e anche la dittatura, in
quanto ad esistere sarà solo più il proletariato e la dittatura
era sui non-proletari. A questo punto lo stato perderà ogni
significato: se prima serviva come strumento di dittatura, ora sarà
del tutto inutile. Esso dunque si estingue (l’intera macchina
statale finisce ‘ nel posto che da quel momento le spetta, cioè
nel museo delle antichità accanto alla rocca per filare e all'ascia
di bronzo ’, diceva Engels) e si passa all’anarchia. Tuttavia
nella storia della Russia rivoluzionaria non si riuscirà mai a
sorpassare la fase di dittatura del proletariato e lo stato non
verrà mai eliminato, come già temeva Bakunin quando accusava Marx
sostenendo che dalla dittatura non si sarebbe mai usciti. Quando
Lenin dice che bisogna dare tutto il potere ai soviet, intende
soprattutto dire che è opportuno uscire, il più presto possibile,
da quella strana ambiguità di potere per cui il potere effettivo è
in mano al governo democratico-liberale dei Cadetti ma senza il
consenso dei soviet non può fare nulla. La soluzione la si otterrà
quando i Bolscevichi attueranno la Presa del Palazzo d’Inverno. E’
curioso il fatto che Lenin si accorga di come, con la guerra
mondiale, lo stato, a livello europeo ma anche mondiale, abbia
cessato di essere un puro e semplice strumento del dominio di classe
per diventare la massima potenza economica: sul piano dei rapporti
delle classi, restava e anzi si esasperava il capitalismo, ma sul
piano economico era stata avviata una statalizzazione della
produzione che anticipava il socialismo o, addirittura, cominciava
ad attuarlo. ‘ La metà materiale, economica ‘ del socialismo
era già realizzata; si trattava di realizzare l’altra metà,
cioè quella politica. ‘ Il socialismo non è altro che il
capitalismo monopolistico di stato messo al servizio di tutto il
popolo e che, in quanto tale, ha cessato di essere monopolio
capitalistico. Non vi è via di mezzo. La guerra imperialista è la
vigilia della rivoluzione socialista. E non solo perché la guerra
con i suoi orrori genera l’insurrezione proletaria, ma perché il
capitalismo monopolistico di Stato è la preparazione materiale più
completa del socialismo, è la sua anticamera, è quel gradino della
scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino
chiamato socialismo ‘. Lenin avvertiva che con la guerra lo stato
si era sempre più militarizzato anche nella sua politica interna
(reprimendo ovunque i movimenti socialisti) e andava sempre più
maturando la convinzione che alla fine lo stato andasse eliminato,
tant’è che fu più volte accusato duramente di anarchismo
(soprattutto da Kamenev).
IL MARXISMO E LA SUA APPLICAZIONE PRATICA IN
LENIN
Lenin era convinto nel 1917 della possibilità di
una rivoluzione proletaria in Russia, nonostante tale arretratezza.
Da tempo Lenin aveva criticato i populisti russi, fautori di un
comunismo agrario anticapitalistico, opponendo ad essi la necessità
di passare attraverso la fase capitalistica. Ciò non significava
che la transizione al socialismo dovesse avvenire attraverso le
riforme e la lotta parlamentare: anche per Lenin l' unica via era
data dalla rivoluzione. Ma per condurre ad essa era necessaria la
formazione di un partito di rivoluzionari professionisti, inteso
come avanguardia della classe operaia. Già nel 1902, in Che fare? ,
Lenin aveva elaborato la sua concezione del partito, come gruppo
fortemente cementato al suo interno dall' unità ideologica,
disciplinato e centralizzato nelle sue decisioni ed efficiente sul
piano operativo. Con queste tesi egli si opponeva a tutte le forme
di anarchismo e spontaneismo, che affidavano l' iniziativa
rivoluzionaria a moti spontanei e improvvisi delle masse, non
preparati, organizzati e guidati dal partito, o indulgevano ad atti
di terrorismo puramente individuali, svincolati dai movimenti di
massa. Su questi temi Lenin tornerà ancora nel 1920 con lo scritto
Estremismo, malattia infantile del comunismo . Questi erano i
problemi preliminari alla presa del potere, ma alla vigilia della
vittoria della rivoluzione nel 1917 egli affrontava in Stato e
rivoluzione la questione dei caratteri che avrebbe assunto il
periodo di transizione al comunismo, con il passaggio del potere
nelle mani del proletariato. Lenin riteneva necessaria una fase
transitoria di dittatura del proletariato, ossia un momento
coercitivo caratterizzato dall' uso della forza per preparare il
passaggio al regno della libertà. Infatti il controllo operaio
sulla produzione e la partecipazione dei lavoratori alla direzione
dello Stato, attraverso la formazione dei Soviet (consigli) degli
operai e dei contadini, avrebbero avviato il processo, che avrebbe
condotto all' estinzione dello Stato stesso. Per la formazione dei
membri del partito, in quanto guida consapevole della classe operaia
nei suoi momenti di lotta e di esercizio del potere, è essenziale
una componente teorica, fornita dal marxismo. Lenin individua i due
elementi fondamentali della teoria marxiana nel materialismo e nella
dialettica e torna a collegarli, mentre per ragioni opposte i
marxisti di stampo positivistico ed evoluzionistico e i marxisti
revisionati li avevano scissi o eliminati. Per combattere la
diffusione dell'empiriocriticismo tra i marxisti russi egli pubblica
Materialismo e empiriocriticismo (1909). Qui egli sostiene che la
materia , agendo sui nostri sensi, produce le sensazioni: questo
significa che essa e, quindi, le cose in generale esistono
indipendentemente dalle nostre sensazioni e dalla nostra coscienza.
In questo senso la scienza conferma l' esistenza della terra prima
che esistesse l' umanità in grado di conoscerla. Non si può dunque
affermare che esista una di9fferenza di principio tra i fenomeni,
ossia le cose come appaiono a noi, e le cose in sè, come
pretendevano certe forme di kantismo. L' unica differenza rilevante
è quella intercorrente fra quel che è conosciuto e ciò che non lo
è ancora. Esiste dunque una verità oggettiva assoluta, a cui ci si
avvicina progressivamente: dire che la conoscenza è relativa
equivale soltanto a dire che essa non è ancora in possesso della
verità totale, non che non esiste una verità unica, ma esistono
soltanto verità diverse in relazione a ciascun individuo. L' errore
dei positivisti, dei neokantiani e degli empiristi consiste, secondo
Lenin, nel considerare i dati della conoscenza come qualcosa di già
costituito e invariabile. Si tratta invece di analizzare questi dati
all' interno del processo dinamico che conduce alla conoscenza. In
questo senso la conoscenza è il "riflesso" della realtà,
ma ciò non significa che essa sia un rispecchiamento puramente
passivo di una realtà intesa come qualcosa di fisso e immutabile.
La realtà e il processo della conoscenza devono, invece, essere
interpretati alla luce della dialettica. Su questo punto Lenin
insisterà anche nei Quaderni filosofici , pubblicati postumi nel
1933, frutto anche della sua rilettura delle opere di Hegel. Egli
giunge alla conclusione che " non si può comprendere
perfettamente il Capitale se non si è compresa e studiata
attentamente tutta la logica di Hegel. Di conseguenza, mezzo secolo
dopo nessun marxista ha compreso Marx ". Hegel e Marx avevano
insegnato che la dialettica non è un movimento o un' evoluzione
puramente meccanica, ma è sviluppo che ha il suo motore nella lotta
degli opposti. In questo senso la dialettica offriva secondo Lenin,
la chiave di lettura della storia come lotta di classi, alla quale
sarebbe seguito il momento sintetico della società senza classi. In
Stato e Rivoluzione riprende a sviluppare le idee di Marx sulla
dittatura del proletariato e sulla trasformazione rivoluzionaria
dello Stato nell'autogoverno dei produttori (che egli intendeva
attuare attraverso il movimento dei Soviet).
RIFLESSIONI FAMOSE
Revisionisti : Sul
piano politico il revisionismo ha tentato di rivedere il fondamento
reale del marxismo, la dottrina della lotta di classe. La libertà
politica, la democrazia, il suffragio universale, ci è stato detto,
distruggono le basi stesse della lotta di classe e confutano la
vecchia tesi del Manifesto comunista secondo cui gli operai non
hanno patria. In regime di democrazia, dove domina la "volontà
della maggioranza", non si può più considerare lo Stato come
un organo del dominio di classe e non ci si può più sottrarre
all'alleanza con la borghesia progressista, propugnatrice di riforme
sociali, contro i reazionari. E' incontestabile che queste obiezioni
dei revisionisti danno vita a un sistema abbastanza irganico di
idee, cioè; al sistema già noto da un pezzo delle concezioni
liberali borghesi. I liberali hanno sempre sostenuto che il
parlamentarismo borghese distrugge le classi e la divisione in
classi, perché tutti i cittadini senza distinzione hanno diritto al
voto, hanno diritto di partecipare agli affari dello Stato. Ma tutta
la storia dell'Europa nella seconda metà del XIX secolo, tutta la
storia della rivoluzione russa all'inizio del secolo XX dimostrano
chiaramente quanto siano assurde queste concezioni. Con la libertà
del capitalismo "democratico" le differenze economiche non
si attenuano, ma si accentuano e si inaspriscano. Il parlamentarismo
non elimina ma mette a nudo l'essenza delle repubbliche borghesi
più democratiche come organi dell'oppressione di classe. (Lenin,
Marxismo e revisionismo, marzo-aprile 1908)
Cretinismo parlamentare : Soltanto dei
mascalzoni o dei semplicioni possono credere che il proletariato
debba prima conquistare la maggioranza alle elezioni effettuate
SOTTO IL GIOGO DELLA BORGHESIA, sotto IL GIOGO DELLA SCHIAVITU'
SALARIATA, e poi conquistare il potere. E'il colmo della stupidità
o dell'ipocrisia; ciò vuol dire sostituire alla lotta di classe e
alla rivoluzione le elezioni fatte sotto il vecchio regime, sotto il
vecchio potere. Il proletariato conduce la sua lotta di classe senza
aspettare le elezioni per incominciare uno sciopero, benché per il
completo successo dello sciopero occorra la simpatia della
maggioranza dei lavoratori (e di conseguenza anche della maggioranza
della popolazione). Il proletariato conduce la sua lotta di classe
abbattendo la borghesia, senza aspettare nessuna votazione
preliminare (organizzata dalla borghesia e che si svolga sotto la
sua oppressione), e nel farlo sa benissimo che per il successo della
sua rivoluzione, per l'abbattimento della borghesia E' ASSOLUTAMENTE
NECESSARIA la simpatia della maggioranza dei lavoratori (e di
conseguenza della maggioranza della popolazione). I cretini
parlamentari e i moderni Louis Blanc "esigono"
assolutamente delle elezioni, e assolutamente organizzate dalla
borghesia, per determinare la simpatia della maggioranza dei
lavoratori. Ma questo è; un punto di vista di pedanti, di cadaveri
o di abili ingannatori. La realtà viva, la storia delle vere
rivoluzioni mostrano che assai spesso "la simpatia della
maggioranza dei lavoratori" non può essere dimostrata da
nessuna votazione (per non parlare delle elezioni organizzate dagli
sfruttatori, con l'"eguaglianza" tra sfruttatore e
sfruttato!). Assai spesso "la simpatia della maggioranza dei
lavoratori"è dimostrata NON da votazioni, ma dallo sviluppo di
un partito, o dall'aumento del numero dei sui membri nei soviet, o
dal successo di uno sciopero che, per un qualche motivo, abbia
acquistato grandissima importanza, o dal successo della guerra
civile, ecc. ecc. (...) La rivoluzione proletaria è impossibile
senza la simpatia e l'appoggio dell'immensa maggioranza dei
lavoratori per la loro avanguardia, il proletariato. Ma questa
simpatia, questo appoggio non si ottengono di colpo, non sono le
elezioni a deciderli, ma SI CONQUISTANO con una lunga, difficile,
dura lotta di classe. La lotta di classe del proletariato PER la
simpatia, PER l'appoggio della maggioranza dei lavoratori non si
esaurisce con la conquista del potere politico da parte del
proletariato. DOPO la conquista del potere questa lotta CONTINUA, ma
in ALTRE forme. (Lenin, Saluto ai comunisti italiani, francesi e
tedeschi, 10 ottobre 1919)
La Borsa : La potenza del capitale è tutto,
la Borsa è tutto, mentre il parlamento, le elezioni, sono un gioco
da marionette, di pupazzi. (Lenin, Sullo Stato., 11 luglio 1919)
Concezione del mondo : Tutta l'esperienza
della storia moderna e, in particolare, la lotta rivoluzionaria del
proletariato di tutti i paesi, sviluppatasi per più di
cinquant'anni, dopo la pubblicazione del MANIFESTO COMUNISTA,
dimostrano inconfutabilmente che la concezione marxista del mondo
è; la sola espressione giusta degli interessi, delle opinioni e
della cultura del proletariato rivoluzionario. (Lenin, Sulla cultura
proletaria, 8 ottobre 1920)
Dottrina marxista-leninista La dottrina di
Marx è onnipotente perché è giusta. Essa è completa e armonica,
e dà agli uomini una concezione integrale del mondo, che non può
conciliarsi con alcuna superstizione, con nessuna reazione, con
nessuna difesa dell'oppressione borghese. Il marxismo è il
successore legittimo di tutto ciò che l'umanità ha creato di
meglio durante il secolo XIX: la filosofia tedesca, l'economia
politica inglese e il socialismo francese. (Lenin, Tre fonti e tre
parti integranti del marxismo, marzo 1913)
Concezione proletaria : Tutta l'esperienza
della storia moderna e, in particolare, la lotta rivoluzionaria del
proletariato di tutti i paesi, sviluppatasi per più di
cinquant'anni, dopo la pubblicazione del MANIFESTO COMUNISTA,
dimostrano inconfutabilmente che la concezione marxista del mondo è
la sola espressione giusta degli interessi, delle opinioni e della
cultura del proletariato rivoluzionario. (Lenin, Sulla cultura
proletaria, 8 ottobre 1920)
Gioventù : Il compito della Gioventù
Comunista consiste nell'indirizzare la propria attività in modo
che, studiando, organizzandosi, raggruppandosi, lottando, questa
gioventù educhi se stessa e tutti coloro che vedono in essa una
guida così da formare dei comunisti.
GIACOBINISMO LENINIANO, SOVIET E ACCUSE DI
BLANQUISMO
L'accusa di essere una tendenza "giacobina"
e "blanquista" è quella che più di frequente si muove
alla Corrente Leninista Internazionale e al suo Manifesto. E'
sintomatico che essa ci sia lanciata da organizzazioni che, pur
accusandosi reciprocamente delle peggiori nefandezze teoriche e
pratiche, fanno a gara nel considerarsi "trotskyste
ortodosse". Caratteristica comune di tutti i trotskysti più o
meno ortodossi è quella di avere introiettato il peccato originale
di Trotsky (peccato di cui egli si vergognerà per tutta la vita):
quello di aver inizialmente combattuto il bolscevismo come
"deviazione giacobina". E' tipico dei trotskysti
dimenticare quanto Trotsky stesso ebbe modo di dire più volte negli
anni '20 e '30, e che cioè sul Partito, cioè sulla questione del
"giacobinismo", Lenin, e non lui o Rosa Luxemburg , ebbe
ragione sin dall'inizio. Tutta la titanica lotta per costruire la
Quarta Internazionale (lotta che egli considerò il compito più
importante della sua vita), Trotsky la condusse infatti sotto la
bandiera del leninismo più intransigente: "Non si possono
esprimere gli interessi di classe se non sotto forma di programma;
non si può difendere il programma se non costituendo un Partito. La
classe in sé considerata non è che oggetto di sfruttamento. Il
ruolo specifico del proletariato comincia nel momento in cui una
classe sociale in sé diviene una classe politica per sé. Ciò può
avvenire solo tramite il Partito. Il Partito è l'organo storico
mediante il quale la classe acquista coscienza di sé. Dire "la
classe è al di sopra del partito", significa affermare: la
classe allo stato bruto è al di sopra della classe che sta per
acquistare coscienza di sé. Non solo questo è falso, ma è
reazionario". ( L.D.Trotsky. "E ora?". Gennaio 1932)
Molti trotskysti non hanno fatto mistero che, dalla scissione del
POSDR al 1917, sarebbero stati con Trotsky contro Lenin, dimostrando
così di non avere capito nulla né del leninismo né del trotskysmo.
E' un fatto che la gran parte delle correnti trotskyste, sulla
questione del Partito, dell'insurrezione e della dittatura
proletaria, cioè del "giacobinismo", sono molto più
vicine alle posizioni della Luxemburg che a quelle di Lenin. Esse
attaccano il giacobinismo ma in realtà il loro vero bersaglio è la
concezione leninista. E' degno di nota che la critica al
giacobinismo ha sempre tentato di mascherare la sua natura
opportunista e socialdemocratica camuffandosi coi panni
dell'estremismo parolaio e con il culto della spontaneità operaia.
I trotskysti hanno anche un altro difetto, di non aver mai afferrato
il contenuto reale della parola d'ordine leninista del 1905 che va
sotto il nome di "dittatura democratica rivoluzionaria degli
operai e dei contadini", dimenticando quanto Trotsky stesso
ebbe modo di precisare nel 1940. L. Trotsky. "Tre concezioni
della rivoluzione". 1940 Per loro Lenin voleva tenere, durante
la rivoluzione democratico-borghese, il proletariato russo a
rimorchio della borghesia. Ma questa era la posizione dei
menscevichi (per i quali, siccome la rivoluzione era borghese,
occorreva spingere al governo il Partito liberale) non dei
bolscevichi! Già nel giugno 1905 Lenin affermava: "I giacobini
della socialdemocrazia contemporanea, i bolscevichi, vogliono
elevare, con le loro parole d'ordine, la piccola borghesia
rivoluzionaria e repubblicana, e specialmente i contadini, al
livello del democratismo conseguente del proletariato, senza che
questo perda la sua fisionomia di classe. Vogliono che il popolo,
cioè il proletariato e i contadini, regoli i conti con lo zarismo e
l'aristocrazia "alla plebea", sterminando implacabilmente
i nemici della libertà, reprimendo con la forza la loro resistenza,
non facendo alcuna concessione al maledetto passato di schiavitù,
di asiatismo, di oltraggio all'essere umano". (V.I.Lenin.
"Due tattiche della socialdemocrazia russa". Giugno 1905)
In altre parole Lenin non era affatto per una coalizione con la
borghesia, per appoggiare la borghesia, ma per prendere a calci nel
sedere la borghesia, riteneva, in polemica con i menscevichi, che
"Alcuni mesi di dittatura rivoluzionaria del proletariato e dei
contadini faranno molto di più che decenni di pacifica e abbrutente
atmosfera di stagnazione politica". (V.I. Lenin "La
dittatura democratica rivoluzionaria". Aprile 1905) Con estrema
chiarezza affermava che la rivoluzione del 1905 non doveva essere un
nuovo 1789, ma un 1793 (nel senso della dittatura giacobina dal
giugno 1793 al 27 luglio 1794) o, per essere più precisi, un 1848,
nel senso che "Il compito della socialdemocrazia deve essere
spingere più in là possibile la rivoluzione borghese, senza
dimenticare mai l'obbiettivo principale: l'organizzazione autonoma
del proletariato". (V.I.Lenin "Una rivoluzione del tipo
1789 o del tipo 1848?" . Marzo 1905) I sostenitori di una
supremazia di Trotsky su Lenin, non solo mostrano una pericolosa
sottovalutazione della questione del Partito;la cui costruzione è
stato il principale merito strategico di Lenin su tutte le altre
correnti di sinistra della II. Internazionaleas; essi giustificano
la loro tesi con l'argomentazione (notoriamente di origine
staliniana) secondo cui Lenin avrebbe fino all'ultimo respinto
l'idea che il proletariato doveva prendere il potere durante la
rivoluzione democratica. In realtà Lenin giunge alle conclusioni
essenziali di Trotsky (rivoluzione permanente) molto prima
dell'aprile del 1917: "Nessuno è in grado di predire fino a
che punto saranno attuate in Russia trasformazioni realmente
democratiche nell'epoca delle sue rivoluzioni borghesi, ma non v'è
ombra di dubbio che solo la lotta rivoluzionaria del proletariato
determinerà il grado e il successo delle trasformazioni. Tra le
"riforme", nello spirito borghese, ma che recano il
marchio della servitù, da una parte, e la rivoluzione democratica
guidata dal proletariato, dall'altra, possono esserci solo le
esitazioni impotenti, senza carattere, senza idee, del liberalismo e
del riformismo opportunista. Dando uno sguardo generale alla storia
della Russia dell'ultimo mezzo secolo, agli anni 1861 e 1905,
possiamo soltanto ripetere con convinzione ancora maggiore le parole
della nostra risoluzione di Partito: "lo scopo della nostra
lotta è, come prima, l'abbattimento dello zarismo, la conquista del
potere politico da parte del proletariato, che si appoggia sugli
strati rivoluzionari delle masse contadine ed attua la rivoluzione
democratico-borghese mediante la convocazione di un'assemblea
costituente di tutto il popolo e l'instaurazione di una repubblica
democratica"". (V.I. Lenin "Riforma contadina e
rivoluzione proletaria-contadina" . Marzo 1911) Un'altra
critica che spesso viene rivolta dai trotskysti alla politica
proposta da Lenin nel 1905 è quella di subordinare la classe
operaia ai contadini. E' vera questa critica? No, è falsa.
"Essere diffidenti verso i contadini, organizzarsi
separatamente da loro, essere pronti a lottare contro di loro, nella
misura in cui operano come reazionari o come antiproletari. In altri
termini: aiutare il contadino, quando la sua lotta contro il
proprietario fondiario giova allo sviluppo e al consolidamento della
democrazia; mantenersi neutrali nei confronti del contadino, quando
la sua lotta contro il grande proprietario fondiario non è altro
che una resa dei conti, senza interesse per il proletariato e la
democrazia, tra due frazioni della classe dei proprietari
fondiari". (V.I. Lenin "Il proletariato e i
contadini" . Marzo 1905) Di più. Lenin, al pari di Trotsky, e
contrariamente alla vulgata staliniana, escludeva che i contadini
potessero "intaccare il dominio della borghesia":
"Non si può parlare della unione dei contadini e degli operai
in un unico Partito. Gli operai si prefiggono di distruggere la
schiavitù del salario mediante l'eliminazione del dominio della
borghesia. I contadini avanzano rivendicazioni democratiche che
possono distruggere la servitù della gleba, in tutte le sue basi e
manifestazioni sociali, ma che non sono in grado nemmeno di
intaccare il dominio della borghesia". (V.I. Lenin "I
Trudoviki e la democrazia operaia" . Maggio 1912) Tuttavia,
come Shakespeare, ebbe a dire, accadono più cose nel mondo di
quante possa concepirne una intera filosofia. Così, pur se
sconfitta in Russia, l'ipotesi della "dittatura democratica
degli operai e dei contadini", si è rivelata una possibile
chiave di lettura di rivoluzioni come quella jugoslava, cinese,
vietnamita o cubana. In questi paesi, contrariamente ad uno dei
postulati della teoria di marxista i contadini e non il proletariato
urbano sono stati la forza motrice dei processi di rivoluzione
democratica e di liberazione dal gioco imperialista. Questi
movimenti, sotto la guida di una intellighenzia giacobina legata al
Komintern, approfittando dell'equilibrio di forze contrassegnato
dalla potenza mondiale dell'URSS, non solo sono saliti al potere, ma
hanno infine spezzato le compatibilità capitalistiche permettendo
l'edificazione di sistemi collettivisti o, per dirla con la Quarta
Internazionale, di "Stati operai deformati" (così
confermando l'essenziale della teoria della rivoluzione permanente).
Polemizzando con Plechanov, Lenin scriveva: "I giacobini del
1793 erano i rappresentanti della classe più rivoluzionaria del
XVIII secolo, degli strati più poveri della città e della
campagna. L'esempio dei giacobini è istruttivo. Non è ancora
invecchiato, ma bisogna applicarlo alla classe rivoluzionaria del XX
secolo, agli operai e ai semiproletari. Se il potere passasse ai
"giacobini" del XX secolo, ai proletari e ai
semiproletari, essi dichiarerebbero nemici del popolo i capitalisti
che accumulano miliardi nella guerra imperialistica, cioè nella
guerra per la spartizione del bottino e dei profitti capitalisti. I
giacobini del 1793 sono entrati nella storia come un grande esempio
di lotta veramente rivoluzionaria contro la classe degli sfruttatori
da parte della classe dei lavoratori e degli oppressi, impadronitasi
di tutto il potere statale". (V.I. Lenin. ""Sui
nemici del popolo" giugno 1917) Rappresentare e organizzare gli
strati più poveri e oppressi della città e della campagna, lottare
per l'annientamento della classe dei capitalisti e a questo scopo
edificare la dittatura rivoluzionaria: ecco l'essenziale
dell'esperienza giacobina, esperienza di cui il Lenin propone di
raccogliere l'eredità. Che questa sostanza del giacobinismo debba
essere raccolta, mutatis mutanti, dai comunisti, Lenin non si
stancherà di ripeterlo proprio mentre tenta di orientare il suo
Partito alla conquista del potere statale: "O il
"giacobinismo". Gli storici della borghesia vedono nel
giacobinismo una caduta ("scendere fino"). Gli storici del
proletariato vedono nel giacobinismo uno dei punti più alti mai
raggiunti dalla classe oppressa nella lotta per la sua
emancipazione. I giacobini non erano destinati a conseguire la
vittoria completa, soprattutto perché la Francia del XVIII secolo
era circondata sul Continente da paesi troppo arretrati e perché
nella Francia stessa non c'erano le basi materiali del socialismo,
non c'erano le banche, i sindacati capitalisti, l'industria
meccanica, le ferrovie". (V. I. Lenin "Si può spaventare
la classe operaia con lo spauracchio del "giacobinismo"?
Giugno 1917) Come si vede Lenin non solo difende l'eredità
giacobina, ma considera i giacobini come dei protosocialisti, come
dei precursori del movimento comunista e, quel che è più
importante, un esempio che i proletari debbono seguire durante la
rivoluzione: "Il "giacobinismo" in Europa, o alla
frontiera fra l'Europa e l'Asia, nel XX secolo sarebbe il dominio
della classe rivoluzionaria, del proletariato che, appoggiato dai
contadini poveri e avvalendosi delle condizioni materiali esistenti
per un'avanzata verso il socialismo, potrebbe non soltanto dare
tutto ciò che i giacobini del XVIII secolo hanno dato di grande, di
indistruttibile, d'indimenticabile, ma portare anche, su scala
mondiale, ad una stabile vittoria dei lavoratori. E' proprio della
borghesia odiare il giacobinismo. E' proprio della piccola borghesia
averne paura. Gli operai e i lavoratori coscienti credono al
passaggio del potere alla classe rivoluzionaria, oppressa, poiché
in questo sta la sostanza del giacobinismo, la sola via d'uscita
dalla crisi, il solo modo di evitare la rovina e la guerra". (V.I.
Lenin. Ibidem [sottolineatura di Lenin) Lenin non pronunciava a caso
queste parole. Egli stava preparando il Partito bolscevico
all'insurrezione, alla conquista del potere e a condurre una guerra
civile che egli considerava inevitabile. ("La rivoluzione è la
lotta di classe e la guerra civile più acuta, più selvaggia e più
esasperata. Nessuna grande rivoluzione, com'è dimostrato dalla
storia, si è compiuta senza guerra civile". V.I.Lenin "I
bolscevichi conserveranno il potere statale"? Ottobre 1917)
Contro non aveva soltanto menscevichi e socialisti-rivoluzionari ma
una parte dello stesso gruppo dirigente bolscevico: essi
giustificavano i loro tentennamenti e la loro politica di
conciliazione con il criterio che solo una grande maggioranza poteva
arrogarsi il diritto di rovesciare il governo provvisorio e fondare
uno Stato degli operai e dei contadini. Sottolineando che durante
una crisi rivoluzionaria la "maggioranza" non si può
calcolare staticamente come in una tranquilla competizione
elettorale, Lenin affermava: "La rivoluzione differisce dalla
situazione "normale" negli affari dello Stato proprio
perché le questioni controverse della vita statale sono
direttamente risolte dalla lotta delle classi e dalla lotta delle
masse, compresa la lotta armata. Non può essere altrimenti, dal
momento che le masse sono libere e armate. Da questo fatto
fondamentale deriva che, in tempi di rivoluzione, non basta, no,
esprimere la "volontà della maggioranza", ma bisogna
dimostrarsi più forti nel momento decisivo, bisogna vincere. A
partire dalla "guerra dei contadini" in Germania nel
medioevo e continuando per tutti i grandi movimenti e le epoche
rivoluzionarie fino al 1848, al 1871, e anche al 1905, troviamo
esempi innumerevoli in cui le minoranze meglio organizzate, più
coscienti, meglio armate, impongono la loro volontà alla
maggioranza e vincono". (V.I.Lenin, "Illusioni
costituzionali" agosto 1917 [sottolineatura nell'originale] E'
qui espressa in termini inequivocabili la concezione leninista del
rapporto avanguardia-masse durante una crisi rivoluzionaria: date
certe condizioni, spetta alle "minoranze meglio organizzate,
più coscienti, meglio armate, imporre la loro volontà alla
maggioranza e vincere". Da quali elementi ricava Lenin questa
convinzione? Da un'accurata analisi materialistica della storia di
tutte le rivoluzioni dell'epoca moderna: "Tenendo conto di
quest'esperienza della maggioranza delle rivoluzioni, e in
particolare della rivoluzione del 1848 (la più simile alla nostra
attuale), Marx derideva senza pietà i democratici piccolo-borghesi
che volevano vincere a colpi di risoluzioni e richiamandosi alla
volontà della maggioranza. La nostra esperienza del 1906 lo
conferma in modo ancora più evidente. (...) Dunque, il richiamo
alla maggioranza del popolo non decide ancora niente delle questioni
concrete della rivoluzione. L'usarlo come prova è proprio un
modello d'illusione piccolo-borghese, è il rifiuto di riconoscere
che nella rivoluzione bisogna vincere le classi nemiche, bisogna
abbattere il potere statale che le difende, e che per far questo non
basta la "volontà della maggioranza del popolo", ma
occorre la forza delle classi rivoluzionarie che vogliono e possono
battersi, una forza capace di schiacciare nel momento e nel luogo
decisivo, la forza nemica. Quante volte è accaduto nelle
rivoluzioni che la forza piccola, ma ben organizzata, armata e
centralizzata delle classi dirigenti, dei grandi proprietari
fondiari e della borghesia, abbia schiacciato la forza della
"maggioranza del popolo", male organizzata, male armata,
divisa! Sostituire ai problemi concreti della lotta di classe, nel
momento in cui essa è particolarmente acutizzata dalla rivoluzione,
considerazioni "generali" sulla "volontà del
popolo", sarebbe degno solo del più ottuso
piccolo-borghese". (V.I.Lenin "Dal diario di un
pubblicista". 14 settembre 1917) I più accaniti avversari del
"giacobinismo", e tra questi Rosa Luxemburg, hanno
giustificato questa loro ripulsa con l'idealistica pretesa secondo
cui la rivoluzione proletaria ubbidisce a leggi su e proprie,
originali, del tutto differenti se non opposte alle leggi delle
rivoluzioni di tipo borghese. Questa idea si basa su un fondamento
economicistico, sulla concezione evoluzionistica e storicistica
secondo il socialismo è ineluttabile, che esso sarà un parto
naturale dello sviluppo capitalistico; di qui la critica al
"giacobinismo", la fatale sottovalutazione della funzione
della direzione, che dovrebbe limitarsi a svolgere il ruolo di mero
organizzatore del movimento. Lenin sferzava questa panzana
spontaneista e operaista, rimarcando non solo ciò che differenzia,
ma ciò che accomuna le rivoluzioni proletarie da quelle borghesi;
ciò che noi potremmo chiamare leggi universali della lotta
rivoluzionaria per il potere. L'accusa di essere un "blanquista"
fu rivolta per la prima dagli avversari di Lenin, già durante i
lavori del II. Congresso del POSDR nel 1902-03. Successivamente
diventò il lei moti non solo dei menscevichi ma pure di Trotsky e
Rosa Luxemburg. Quest'accusa veniva rilanciata con veemenza dai
menscevichi durante la rivoluzione, i quali temevano che Lenin
stesse spingendo il suo Partito a preparare un'insurrezione armata
per rovesciare il governo provvisorio di Kerensky (del quale essi
facevano appunto parte). I nostri critici, che si considerano
trotskysti, dovrebbero riflettere sulla simmetria tra le loro accuse
alla Corrente Leninista Internazionale e quelle rivolte dai
menscevichi al Partito bolscevico. I nostri critici, ritengono
"blanquista" la nostra tesi secondo cui la rivoluzione
socialista, pur essendo uno sconvolgimento storico caratterizzato
dalla mobilitazione di larghe masse, se vuole andare fino in fondo,
cioè vincere, non può che concludersi in insurrezione armata,
cioè nella conquista del potere da parte dell'avanguardia
organizzata in Partito politico. "La menzogna opportunistica
secondo la quale la preparazione dell'insurrezione e, in generale,
il considerare l'insurrezione come un'arte è "blanquismo",
è una delle peggiori e forse la più diffusa delle deformazioni del
marxismo compiute dai partiti "socialisti" dominanti. Il
capo dell'opportunismo, Bernstein, si è già guadagnato una triste
celebrità accusando il marxismo di blanquismo, e gli opportunisti
attuali che gridano al blanquismo, in sostanza non rinnovano e non
"arricchiscono" affatto le già povere "idee" di
Bernestein. Accusare i marxisti di blanquismo perché considerano
l'insurrezione un'arte! (...) Per riuscire l'insurrezione deve
fondarsi non su di un complotto, non su di un Partito, ma sulla
classe d'avanguardia. Questo in primo luogo. L'insurrezione deve
fondarsi sullo slancio rivoluzionario del popolo. Questo in secondo
luogo. L'insurrezione deve saper cogliere quel punto critico nella
storia della rivoluzione in ascesa che è il momento in cui
l'attività delle schiere più avanzate del popolo è massima e più
forti sono le esitazioni delle file dei nemici e nelle file degli
amici deboli, equivoci e indecisi della rivoluzione. Questo in terzo
luogo. Ecco le tre condizioni che, nell'impostazione del problema
dell'insurrezione, distinguono il marxismo dal blanquismo". (V.I.
Lenin "lettera al Comitato Centrale del POSDR". Settembre
1917. [Sottolineatura nell'originale] Lenin si rivolgeva al suo
Comitato Centrale invitandolo a rompere ogni indugio, contro la
tendenza all'esitazione e al compromesso con il governo provvisorio.
Vi era chi, come Zinoviev e Kamenev, considerava l'atto di forza del
Partito proposto da Lenin, un "colpo di Stato", un
"complotto blanquista" che avrebbe portato alla vittoria
della controrivoluzione. Essi sostenevano che occorreva aspettare
l'Assemblea Costituente e al posto di un governo dei bolscevichi
proponevano un regime fondato sulla fusione tra i Soviet e il
parlamentarismo borghese. "E per trattare l'insurrezione da
marxisti, cioè come un'arte, dobbiamo, nello stesso tempo, senza
perdere un istante, organizzare uno stato maggiore delle squadre
insurrezionali, ripartire le nostre forze, mettere i reggimenti
fedeli nei punti più importanti, circondare il Teatro Alessandro,
occupare la fortezza Pietro e Paolo, arrestare Stato maggiore e
governo, mandare contro gli allievi ufficiali e contro la
"divisione selvaggia" reparti pronti a sacrificarsi
piuttosto che lasciar entrare il nemico nel centro della città,
mobilitare gli operai armati, chiamarli a un'ultima accanita
battaglia, occupare simultaneamente il telegrafo e il telefono,
installare il nostro stato maggiore insurrezionale nella centrale
telefonica, collegarlo per telefono a tutte le officine, a tutti i
reggimenti, a tutti i punti dove si svolgerà la lotta armata,
ecc". (Ibidem) Preparare minuziosamente e illegalmente il colpo
armato decisivo, tenere segreti i piani d'attacco, tener pronto il
Partito ad afferrare tutto il potere: tutto questo per gli avversari
di Lenin era la prova infallibile del suo blanquismo. Zinoviev e
Kamenev, nella riunione della direzione bolscevica del 29 ottobre,
accusarono Lenin di avventurismo blanquista e affermarono che
"...un Partito marxista, d'altra parte, non può ridurre
l'insurrezione a una congiura militare". (In: V.I.Lenin
"Lettera ai compagni". 30 ottobre 1917) Ecco come
rispondeva Lenin: "Il marxismo è una dottrina estremamente
profonda e complessa. Non è strano perciò che si possano
incontrare frammenti di citazioni di Marx soprattutto se fatte a
sproposito tra gli "argomenti" di coloro che si staccano
dal marxismo. Una congiura militare è blanquismo se essa non è
organizzata dal Partito di una classe determinata, se coloro che
l'organizzano non hanno valutato giustamente il momento politico in
generale e la situazione internazionale in particolare; se il
Partito non ha la simpatia, dimostrata concretamente, della
maggioranza del popolo; se lo sviluppo degli avvenimenti
rivoluzionari non ha condotto alla distruzione pratica delle
illusioni conciliatrici della piccola borghesia; se non si è
conquistata la maggioranza degli organi del genere dei
"soviet"; riconosciuti "muniti di pieni poteri"
o diversamente considerati tali per la lotta rivoluzionaria; se non
vi è nell'esercito (nel caso che gli avvenimenti si svolgano in
tempo di guerra) uno stato d'animo completamente maturo di ostilità
contro un governo che prolunga una guerra ingiusta contro la
volontà del popolo; se le parole d'ordine dell'insurrezione (come
"tutto il potere ai soviet", "la terra ai
contadini", " proposta di una pace democratica a tutti i
popoli belligeranti", "annullamento immediato dei trattati
segreti, abolizione delle diplomazia segreta" ecc.) non hanno
la più larga diffusione e la massima popolarità; se gli operai
avanzati non sono convinti della situazione disperata delle masse e
sicuri dell'appoggio delle campagne, appoggio dimostrato da un
importante movimento contadino o da un'insurrezione contro i grandi
proprietari fondiari e contro il governo che li difende; se la
situazione economica del paese permette seriamente di sperare in una
soluzione favorevole della crisi con i mezzi pacifici e
parlamentari. Non vi pare che basti"? (Ibidem ) Cosa ci dice
dunque Lenin? Che data la maturità di determinate condizioni
oggettive e soggettive non c'è opposizione tra insurrezione come
arte e congiura militare come questione tecnica, che quando le sorti
della rivoluzione si decidono nell'arco compresso di pochi giorni e
poche ore, l'una si appoggia sull'altra: "Accerchiare e isolare
Pietrogrado, impadronirsene con un attacco combinato della flotta,
degli operai e dell'esercito: tale è il compito, che richiede arte
e audacia estrema. Il successo della rivoluzione russa e della
rivoluzione mondiale dipende da due o tre giorni di lotta". (V.I.Lenin
"Consigli di un assente". 21 ottobre 1917) Ma non era solo
contro Zinoviev e Kamenev (di cui chiese l'espulsione per aver fatto
pubblicare in un giornale menscevico una loro lettera in cui,
comunicando di essere contrari all'insurrezione, portarono con ciò
stesso il nemico a conoscenza dei piani del Partito) (V.I.Lenin
"Lettera ai membri del Partito". 31 ottobre 1917) che
Lenin si scagliava. Egli giunse ad annunciare le sue dimissioni dal
CC per protesta contro qui dirigenti (Trotsky era fra costoro) , che
volevano attendere il II. Congresso dei Soviet di tutta la Russia
previsto per il 7 novembre (pensavano, cioè, che solo il congresso
dei soviet aveva la titolarità di decretare il rovesciamento del
governo provvisorio e lanciare l'insurrezione): "Sono perciò
costretto a chiedere di uscire dal CC, cosa che faccio riservandomi
la libertà di agitazione nella base del Partito e nel congresso del
Partito. Perché è mia convinzione profonda che se noi
"attendiamo" il congresso dei soviet e lasciamo passare il
momento attuale, noi perdiamo la rivoluzione". (V.I.Lenin 20
ottobre 1917) Ai compagni che chiedevano di attendere il II.
Congresso dei soviet di tutta la Russia, Lenin diceva
appassionatamente: "In tali condizioni attendere è un delitto.
I bolscevichi non hanno il diritto di attendere il Congresso dei
soviet, essi debbono prendere tutto il potere subito. Così facendo
essi salvano sia la rivoluzione mondiale sia la rivoluzione russa,
sia la vita di centinaia di migliaia di uomini in guerra.
Temporeggiare è un delitto. Attendere il Congresso dei soviet è un
giuoco infantile con i formalismi, un giuoco vergognoso con i
formalismi, un tradimento della rivoluzione. Se non si può prendere
il potere senza insurrezione, bisogna passare subito
all'insurrezione" V.I.Lenin "Lettera al CC, ai comitati di
Mosca e Pietroburgo e ai bolscevichi nei soviet" 14 ottobre
1917. Alla fine, fortunatamente, la posizione di Lenin ottenne la
maggioranza del CC. L'insurrezione ("congiura" o
"cospirazione" blanquista secondo Zinoviev) venne
scatenata la sera del 6 novembre e il II. Congresso dei Soviet non
poteva che prendere atto del fatto compiuto, del fatto che tutto il
potere era stato assunto dal Comitato Militare Rivoluzionario. E'
bene sottolineare questo "dettaglio", il fatto che il
potere fu conquistato non dai soviet, ma dal Partito bolscevico che
lo trasferì, una volta scatenata l'insurrezione, cioè solo in un
secondo momento e a cose fatte, ai soviet degli operai, dei soldati
e dei contadini. Ecco quanto Lenin scriveva il giorno prima
dell'insurrezione: "Chi deve prendere il potere? Questo ora non
è importante: lo prenda il Comitato militare rivoluzionario "o
un'altra istituzione" che dichiari che consegnerà il potere
soltanto ai veri rappresentanti degli interessi del popolo, degli
interessi dell'esercito (proposta immediata di pace), degli
interessi dei contadini (si deve prendere la terra subito, abolire
la proprietà privata), degli interessi degli affamati. Preso il
potere oggi noi non lo prendiamo contro i soviet, ma per loro. La
presa del potere è compito dell'insurrezione; il suo scopo politico
apparirà chiaro dopo. sarebbe la rovina o puro formalismo attendere
l'incerto voto del 7 novembre, il popolo ha il diritto e il dovere
di risolvere simili problemi non con il voto ma con la forza; il
popolo ha il diritto e il dovere nei momenti critici della
rivoluzione di guidare i suoi rappresentanti, anche i migliori
rappresentanti, e non di attenderli". (V.I.Lenin "Lettera
ai membri del CC" 6 novembre 1917) Ci sono in giro per il mondo
molti compagni che pur considerandosi leninisti non afferrano la
dinamica degli eventi dell'ottobre, e quindi non capiscono né la
funzione svolta dal Partito bolscevico né la logica della posizione
leninista. Lenin ci dice che nel momento più critico della
rivoluzione, quando l'assalto insurrezionale è posto all'ordine del
giorno, quando tutto si decide in pochi giorni, non solo il Partito
non deve farsi imbrigliare da vuoti formalismi, ma ha il dovere di
accelerare le tappe, di guidare i rappresentanti popolari, di
spronarli e se necessario di spingerli più avanti e di metterli
davanti al fatto compiuto. Noi che ci limitiamo a difendere questa
impostazione (che è ricca di implicazioni per quanto concerne la
concezione leninista del rapporto tra avanguardia e masse, molto
più che tante astratte dissertazioni intellettualistiche) siamo
accusati di blanquismo e di giacobinismo. Come abbiamo visto
quest'accusa venne rivolta a Lenin in tempo reale dalla destra del
Partito e dai menscevichi. Sintomatico è che oggi, dopo il crollo
del 1989-91 e la "morte del comunismo", è particolarmente
in voga la tesi che la rivoluzione bolscevica fu un puro colpo di
Stato militare, una atto di una minoranza. Molte organizzazioni, o
raccolgono questa accusa prendendo le distanze dal bolscevismo,
oppure, incapaci di resistere all'attacco, negano la supremazia
dell'avanguardia sulle masse, del Partito sui soviet, contrapponendo
insomma ciò che dialetticamente il Partito di Lenin ricondusse ad
unità, e cioè che nell'insurrezione vivono due aspetti l'uno
concatenato all'altro: quello dello slancio informe e caotico delle
masse e quello centralista e dirigente del Partito d'avanguardia.
L'uno non può fare a meno dell'altro. Queste organizzazioni,
precipitando nel campo di un luxemburghismo immaginario, mentre
negano il ruolo determinante del Partito bolscevico e di Lenin in
particolare (Trotsky più tardi dirà che senza Lenin non ci sarebbe
stata alcuna rivoluzione d'Ottobre), tendono ad esagerare quello dei
soviet, giungendo a farne dei veri e propri feticci. Ci accusano di
"blanquismo" dal momento che noi della CLI affermiamo il
diritto del Partito rivoluzionario, nel momento in cui lo sbocco
insurrezionale è possibile, non solo a subordinarsi gli organismi
consiliari del popolo, ma anche, ove fosse necessario per le sorti
della rivoluzione, a conquistare tutto il potere politico. I nostri
critici, anche questa volta, dimenticano che su questi punti Lenin
dovette ingaggiare, durante il 1917, una dura lotta all'interno del
suo Partito. Lenin non escludeva affatto che, ove i bolscevichi non
fossero riusciti per tempo a conquistare la maggioranza all'interno
dei soviet, il Partito avesse il diritto e il dovere di conquistare
il potere statale. "Il nostro Partito, come ogni altro Partito
politico, aspira a conquistare il dominio politico per sé. Il
nostro scopo è la dittatura del proletariato rivoluzionario. Sei
mesi di rivoluzione hanno confermato con straordinaria chiarezza,
forza ed efficacia, che tale rivendicazione è giusta e necessaria
nell'interesse, appunto, di questa rivoluzione, perché diversamente
il popolo non potrebbe ottenere né la pace democratica, né la
terra per i contadini, né la libertà completa (Repubblica
veramente democratica)". V.I.Lenin "Sui compromessi".
14 settembre 1917 Un mese dopo, in uno scritto anco più famoso
Lenin, sempre fustigando le esitazioni che allignavano tra i
bolscevichi e presagendo la rottura con i suoi tradizionali
discepoli scriverà e preciserà: "...i bolscevichi si
decideranno a prendere da soli tutto il potere statale? Ho già
avuto occasione, al congresso dei soviet, di rispondere a questa
domanda con un'affermazione categorica, interrompendo dal mio posto
Tsereteli durante uno dei suoi discorsi ministeriali. E, per quanto
io sappia, nessun bolscevico ha mai affermato, sulla stampa o a
voce, che noi non dobbiamo prendere il potere da soli. Io mantengo
tuttora il punto di vista che un Partito politico in generale, e a
maggior ragione il Partito della classe d'avanguardia, non avrebbe
diritto di esistere, sarebbe indegno di essere considerato un
Partito, sarebbe un meschinissimo zero sotto tutti i rapporti se,
potendo accedere al potere, vi si rifiutasse" V.I.Lenin "I
bolscevichi conserveranno il potere statale". Ottobre 1917 Per
quanto riguarda i soviet e ciò vale per gli organismi di
contropotere che sorgono dal basso nel corso di una crisi
prerivoluzionaria nulla è più lontano da Lenin che il feticismo
spontaneista di tante tendenze marxiste. Anzitutto occorre ricordare
che dopo le giornate di luglio (quando la maggioranza nei soviet era
dei partiti piccolo-borghesi nonostante la svolta bonapartista e
militarista del governo provvisorio) Lenin, proprio mentre proponeva
al Partito di iniziare la preparazione dell'insurrezione, chiese
contestualmente di abbandonare la parola d'ordine "Tutto il
potere ai soviet" in quanto "tutte le speranze di uno
sviluppo pacifico della rivoluzione russa sono definitivamente
svanite". V.I.Lenin "La situazione politica". Luglio
1917 Prendendo atto che il "potere reale era nelle mani della
cricca militare dei Cavaignac" Lenin così rispondeva ai suoi
critici: "Il proletariato rivoluzionario deve prendere il
potere...I soviet possono e devono comparire in questa nuova
rivoluzione, ma non i soviet attuali, non gli organi di questa
intesa con la borghesia, bensì gli organi della lotta
rivoluzionaria contro la borghesia. E' un fatto che anche allora noi
saremo fautori di una struttura statale di tipo sovietico. Non si
tratta di discutere dei soviet in generale, ma di combattere la
controrivoluzione attuale e il tradimento dei soviet attuali.
Sostituire l'astratto al concreto è, in tempi rivoluzionari, una
delle colpe più gravi e più pericolose. I soviet attuali hanno
fatto fallimento, sono falliti completamente perché erano dominati
dai partiti socialista-rivoluzionario e menscevico. Oggi questi
soviet rassomigliano a montoni condotti al mattatoio e che belano
lamentosamente sotto la scure. I soviet sono oggi impotenti e
abbandonati a se stessi di fronte alla controrivoluzione che ha
vinto e che vince. La parola d'ordine del passaggio del potere ai
soviet potrebbe essere intesa come un "semplice" invito
alla presa del potere da parte dei soviet attuali, ma parlare questo
linguaggio, lanciare simili appelli oggi, significherebbe ingannare
il popolo. Nulla è più pericoloso dell'Inganno". V.I.Lenin
"Sulle parole d'ordine". Luglio 1917 E anche quando, dopo
il fallimento del tentativo del generale Kornilov, Lenin riprese in
considerazione la possibilità di chiedere ai soviet di prendere
tutto il potere, egli si scagliò apertamente contro l'idea
"completamente falsa" che ciò significasse "governo
dei partiti che hanno la maggioranza nei soviet", dato che
questo avrebbe significato "soltanto un cambiamento di persone
nella composizione del governo" mentre il vero problema era
distruggere l'apparato statale borghese e costruirne uno proletario
sulle sue ceneri. V.I.Lenin "Uno dei problemi fondamentali
della rivoluzione". Settembre 1971 Poco dopo, rispondendo a
coloro che scambiavano la forma col contenuto dei soviet, a coloro
che volevano subordinare l'autonoma iniziativa del Partito a quella
dei soviet, Lenin rispondeva: "I soviet, vivendo sotto la
direzione di Liberdan, Tsereteli e Cernov, si sono decomposti e
putrefatti. Uno sviluppo dei soviet, nel vero senso della parola,
uno sviluppo completo del loro carattere e delle loro capacità è
possibile soltanto se essi prendono tutto il potere statale;
altrimenti non avranno niente da fare, saranno soltanto degli
embrioni (e non si può restare embrione per molto tempo) o dei
balocchi. Il "dualismo di potere" è la paralisi dei
soviet". V.I.Lenin "I bolscevichi conserveranno il potere
statale". Ottobre 1917 [sottolineatura nell'originale] Non solo
Lenin non feticizza i soviet, egli sottolinea che essi possono
sviluppare le loro potenzialità, possono assolvere in pieno il loro
ruolo rivoluzionario solo se rompono il paralizzante dualismo di
potere, se cioè si trasformano in organi del potere statale operaio
e contadino. Come abbiamo visto, perché ciò accadesse, c'è voluta
l'insurrezione d'Ottobre, cioè l'iniziativa autonoma del Partito.
Senza l'azione di forza dei bolscevichi il Partito non avrebbe
potuto trascinarli e guadagnarli alla causa, essi non sarebbero mai
divenuti "l'apparato dello stato proletario" sarebbero
restati "informi parlamenti del lavoro". L.D.Trotsky
"Terrorismo e comunismo".
IL TESTAMENTO E L'ANTIPATIA PER STALIN
Le note che Lenin dettò tra la fine del 1922 e
l'inizio del 1923, un anno prima di morire, sono conosciute sotto il
nome di "Lettera al congresso" (del partito
bolscevico-russo). La famiglia di Lenin e i suoi più intimi
collaboratori diedero ad esse il nome di "Testamento".
Come noto, ancora oggi l'interpretazione di questo documento da
parte della storiografia sovietica e occidentale è piuttosto
controversa. Avvolto da ogni sorta di miti e di leggende, esso venne
rivelato solo al XX Congresso del Pcus, da Krusciov, e pubblicato
integralmente nel 1956. Questa è la breve cronistoria della
formazione di tale documento: ad essa faranno seguito alcune
riflessioni di merito. Agli inizi del 1921 cominciarono ad apparire
i primi sintomi dell'arteriosclerosi di Lenin, che i medici
attribuivano all'eccessivo lavoro e alle conseguenze dell'attentato
della socialista-rivoluzionaria Fanni Kaplan, di cui era stato
vittima nell'agosto 1918. Verso la fine dell'anno egli era già
gravemente debilitato e costretto a lasciare l'attività pubblica
per molte settimane. Nell'aprile 1922 gli venne estratta una delle
due pallottole con cui era stato colpito dalla Kaplan. Il 25 maggio
la mano e la gamba destre si erano paralizzate ed aveva difficoltà
a parlare. Cedendo malvolentieri alle sollecitazioni dei medici, si
era trasferito a Gorki. Nel giugno il suo stato di salute era
migliorato, sicché all'inizio di ottobre poté tornare a Mosca per
riprendere il lavoro. Ma il 13 dicembre fu colpito da nuovi
disturbi. Decide finalmente di curarsi. Nei tre giorni seguenti, pur
immobilizzato nel letto, ha diverse conversazioni telefoniche,
riceve i suoi più stretti collaboratori, prepara l'intervento per
il X congresso dei soviet, scrive diverse lettere e alcune note
relative al monopolio del commercio estero, alla distribuzione dei
compiti fra i sostituti del presidente del consiglio dei commissari
del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, chiede
d'indagare su come s'effettuava lo stoccaggio della raccolta del
grano nel 1922, s'informa di ciò che viene fatto in materia di
sicurezza sociale, del censimento della popolazione e di altre
questioni. Sulla questione del commercio estero Lenin si scontra
duramente con Stalin (che pur aveva contribuito a far nominare
segretario generale del partito), in quanto quest'ultimo patrocinava
le tesi di Bucharin , Sokolnikov, Frumkin e altri, relative alla
attenuazione se non abolizione del regime di monopolio. Trotski
invece parteggiava per Lenin. Nella notte dal 15 al 16 dicembre il
suo stato di salute s'aggrava seriamente. Il mattino del 16, Lenin
detta una lettera alla moglie, Nadejda Krupskaia. I medici gli
propongono di trasferirsi di nuovo a Gorki, ma lui decide di restare
a Mosca. Chiede a Nadejda di far sapere a Stalin che la malattia gli
impediva d'intervenire al X congresso. Il 18 dicembre si riunisce il
plenum del C.C. Viene deciso di comunicare a Lenin, con l'assenso
dei medici, il testo delle risoluzioni adottate al plenum. Per
decisione speciale dello stesso, Stalin viene investito della
responsabilità personale relativa al controllo della terapia
prescritta dai medici. A partire da questo momento le visite gli
vengono vietate. Alle persone che lo assistono (la moglie, la
sorella, alcune segretarie e il personale medico) viene proibito di
trasmettergli qualsiasi lettera o di informarlo dei correnti affari
di Stato, al fine -questa la giustificazione- di "non
preoccuparlo" Il 21 dicembre Lenin detta a Nadejda una lettera
indirizzata a Trotski, in cui si dichiara soddisfatto della
decisione del plenum circa la conferma dell'intangibilità del
monopolio del commercio estero e suggerisce che venga posta al
congresso del partito la questione del consolidamento di tale
commercio e delle misure da prendere per migliorarne l'efficienza.
Avendo saputo di questa lettera, Stalin, al telefono, rimprovera
duramente Nadejda d'aver trasgredito l'ordine di riposo assoluto
impartito dai medici. Nadejda reagisce inviando il 23 dicembre una
lettera a Kamenev, allora vice-presidente del consiglio dei
ministri: "Stalin s'è permesso ieri un attacco assai rozzo nei
miei riguardi, sotto il pretesto che avevo autorizzato Ilich a
dettarmi una breve lettera -ciò che io ho fatto col consenso dei
medici. Non è da oggi che sono membra del partito, ma in 30 anni
non avevo mai sentito nulla di simile. Gli interessi del partito e
dello stesso Ilich mi stanno a cuore tanto quanto a Stalin. So bene
ciò di cui si può o non si può parlare con Ilich, poiché so che
cosa lo preoccupa, lo so meglio di qualunque medico, in tutti i casi
meglio di Stalin... Non sono di marmo e i miei nervi sono al
limite". La Krupskaia non disse niente a Lenin dell'incidente,
per cui è da escludere ch'essa l'abbia influenzato nel ritratto che
di Stalin egli fece in una nota del 4 gennaio 1923. Solo il 5 marzo
egli viene a conoscenza dell'incidente, per il quale dettò subito
una lettera indirizzata a Stalin: "Compagno Stalin, voi avete
avuto l'impudenza di chiamare mia moglie al telefono per insultarla.
Benché essa vi abbia promesso di dimenticare l'incidente, il fatto
tuttavia, per mezzo di lei, è venuto a conoscenza di Zinoviev e
Kamenev. Io non ho intenzione di dimenticare così facilmente ciò
che è stato fatto contro di me: va da sé infatti che quanto viene
fatto contro mia moglie è come se fosse fatto contro di me. Ecco
perché vi chiedo di farmi sapere se siete disposto a ritirare ciò
che avete detto e a scusarvi, o se invece preferite interrompere le
relazioni tra noi. Con i miei rispetti, Lenin". Stando a una
lettera della sorella di Lenin, Maria Ulianova, Stalin presentò le
sue scuse. Nella notte del 22 dicembre il braccio e la gamba destri
erano paralizzati. Lenin non poteva più scrivere. Il giorno dopo
chiede ai medici il permesso di dettare alla stenografa per cinque
minuti, poiché una questione assai importante gli impediva di
dormire. Fu così che Lenin cominciò a dettare la prima parte della
sua cosiddetta "Lettera al congresso". In questa parte
egli avanzava la necessità di aumentare l'effettivo del CC
facendovi entrare degli operai e dei contadini. Il 24 dicembre,
davanti alle insistenze dei medici che imponevano di cessare ogni
incontro con la stenografa, Lenin pone un ultimatum: o lo si
autorizza a dettare il suo "diario" per qualche minuto al
giorno, oppure rifiuterà categoricamente ogni cura. Lenin in
pratica supponeva che la parola innocente "diario" gli
avrebbe permesso più facilmente d'ottenere l'assenso dei medici. Lo
stesso giorno, dopo essersi consigliati coi medici, Stalin, Kamenev
e Bucharin, prendono la seguente decisione: "1) Lenin è
autorizzato a dettare per 5-10 minuti al giorno, ma non deve dettare
delle lettere e non deve aspettarsi una replica alle sue note. Le
visite sono proibite. 2) Né i suoi amici, né le persone del suo
più vicino entourage debbono dargli informazioni sulla vita
politica, per non dargli modo di inquietarsi". Lenin può
comunque dettare la seconda parte della "Lettera" in cui
delinea i ritratti dei maggiori leader del partito. La stenografa,
Maria Volodicheva, annota nel suo diario che Lenin le ha più volte
ribadito il carattere assolutamente confidenziale di quanto le aveva
dettato i giorni 23 e 24 dicembre e che le note dovevano essere
preparate in cinque esemplari: uno per gli archivi segreti, uno per
lui e tre per la Krupskaja, e poste in buste sigillate. La
stenografa racconterà, nel 1929, d'aver bruciato la minuta e che
sulla busta sigillata con la cera avrebbe dovuto scrivere che solo
Lenin poteva aprirla e, dopo la sua morte, solo N. Krupskaia, ma che
le parole "dopo la sua morte" le aveva tralasciate. Il
segreto dunque verteva esclusivamente sulla seconda parte della
"Lettera", poiché la prima (riguardante l'ampliamento del
CC) era già stata consegnata il 23 dicembre al CC. Nel maggio 1924
la Krupskaia consegnò alla commissione del CC tutte le carte di
Lenin, ma non se ne fece niente. I membri dell'ufficio politico e
una parte dei membri del CC erano già al corrente dei giudizi che
Lenin aveva di taluni responsabili di partito, per cui ritennero
opportuno non rendere pubblico il documento. La volontà di Lenin
non venne rispettata. La malattia aveva colto Lenin in un momento
cruciale della storia del partito comunista e dello Stato sovietico.
La guerra civile (1918-20) non si era ancora conclusa, le truppe
d'intervento straniere continuavano ad occupare l'Estremo Oriente
della nazione, la controrivoluzione interna non s'era ancora
rassegnata a deporre le armi, i kulaki manifestavano nella Russia
centrale, in Ucraina e in Siberia, il movimento dei Basmaci
manifestava in Asia centrale, vi erano sollevazioni in diverse
città. La fame e il disastro dell'economia venivano a peggiorare la
situazione. E, ciononostante, le norme e le regole del
"comunismo di guerra" (tutte le forze e le risorse messe
al servizio della difesa, grazie alla nazionalizzazione della grossa
e media industria, alla centralizzazione della produzione e della
distribuzione, al divieto del commercio privato, al lavoro
obbligatorio, all'uguaglianza dei salari, ecc.) facevano sempre più
posto alla Nuova Politica Economica, elaborata da Lenin, cioè al
fatto che un certo sviluppo del capitalismo veniva tollerato e che
la requisizione dei prodotti agricoli era stata sostituita da
un'imposta in natura. Misure, queste della NEP, che neppure alcuni
membri dell'ufficio politico e del CC riuscivano ad accettare. Ecco
perché Lenin, nella sua prima parte della "Lettera",
raccomandava di procedere a una serie di importanti cambiamenti
politici e organizzativi. Lenin prevedeva che se il CC del partito
non fosse stato ben saldo e compatto, l'accerchiamento della Russia
sovietica da parte degli Stati imperialisti avrebbe potuto
determinare il fallimento della rivoluzione. Temeva infatti che i
conflitti interni al partito, fino a quel momento insignificanti,
avrebbero potuto, di fronte alle pressioni del nemico esterno,
diventare molto gravi. Di qui la richiesta di aumentare il CC fino a
50-100 unità, reclutando "operai e contadini medi" che
non avessero un "lungo funzionariato sovietico" e che non
appartenessero, né direttamente né indirettamente, alla casta
degli sfruttatori. Probabilmente Lenin s'era accorto che in sua
assenza, a causa della malattia, lo stato maggiore del partito non
riusciva a superare le divergenze di opinioni per organizzare un
lavoro intelligente, proficuo. Egli temeva soprattutto la minaccia
d'una scissione nel momento più critico del Paese. Lenin, in
sostanza, auspicava la creazione di uno staff in grado di garantire
il partito contro l'influenza dei tratti negativi di certi suoi
dirigenti, in grado cioè di diminuire l'impatto sia dei fattori
puramente soggettivi, che delle circostanze accidentali nella
soluzione delle questioni più importanti, ma anche in grado di
creare le condizioni in cui il contenuto del lavoro di gruppo,
rigorosamente centralizzato, del CC, non superasse il quadro, non
meno rigorosamente definito, delle sue competenze. Sintomatico è il
fatto che la frase di Lenin: "né il segretario generale, né
alcun altro membro del CC" dovevano essere in grado d'impedire
un controllo sulla loro attività, fu soppressa dalla "Pravda"
del 25 gennaio 1923 e mai pubblicata in nessuna delle successive
raccolte di scritti di Lenin, fino a quando è stata ripristinata,
secondo il manoscritto originale, nel 45° volume della Va edizione
delle sue opere, apparso a Mosca nel 1970. Relativamente ai tratti
soggettivi dei leader del partito, Lenin, nell'ultima nota del 4
gennaio, rilevava che il difetto principale di Stalin, la
"grossolanità", "tollerabile" nei rapporti fra
comunisti, era "inammissibile" per un segretario generale,
per cui proponeva la sua sostituzione, anche per evitare che il
dissidio fra Stalin e Trotski rischiasse di danneggiare l'intero
partito. Quanto, su questa decisione, avesse influito il pericoloso
atteggiamento assunto da Stalin (ma anche da Ordzonikidze e
Dzerzinskij) nella questione delle nazionalità, era facile
intuirlo. Le note del 30-31 dicembre su tale questione e sul
progetto di autonomizzazione sono tra le più importanti del
Testamento. Lenin temeva che il regime sovietico si sarebbe
comportato in maniera imperialistica nei confronti delle nazioni
più piccole o più arretrate. Stalin, in tal senso, s'era mostrato
"fatalmente precipitoso", "nefastamente
collerico" verso il preteso "social-nazionalismo";
Dzerzinskij aveva dato prova di preconcetti imperdonabili; per
Ordzonikidze, che aveva addirittura malmenato pubblicamente un
compagno di partito, Lenin chiedeva una "punizione
esemplare". Stalin, come noto, era stato eletto segretario
generale del CC del partito nella primavera del 1922. Prima
d'accedere a questo posto, egli dirigeva, quale membro dell'ufficio
politico a partire dal marzo 1919, il commissariato per gli affari
delle nazionalità e l'Ispezione operaia e contadina. Durante la
guerra civile e fino a qualche anno dopo, Stalin si era mostrato un
leader energico, volitivo, un grande organizzatore. A motivo di
queste qualità, l'ufficio politico, nella seconda metà del 1921,
gli aveva affidato il lavoro organizzativo in seno al CC. Lo si era
incaricato di preparare i plenum del CC, le sessioni del comitato
esecutivo centrale e di fare altre cose ancora: sicché, in pratica,
egli veniva ad assumere le funzioni del segretario del CC. Lenin,
dal canto suo, era il capo del governo sovietico. Non occupava
ufficialmente alcun ruolo nel partito, nel CC, ma dirigeva le sedute
dei plenum del CC e dell'ufficio politico. Di fatto egli era a capo
non soltanto del consiglio dei commissari del popolo, ma anche del
CC del partito. In queste attività egli aveva come assistente il
segretario del CC. Questa funzione non era ufficiale (non esisteva
prima di Stalin un segretario "generale" del partito), ma,
in pratica, uno dei segretari era stato scelto per dirigere il
lavoro della segreteria. Quando la salute di Lenin peggiorò in modo
irreversibile, si prese la decisione di rafforzare la segreteria del
partito. Il plenum del CC nominò Stalin, perché sembrava fosse il
più idoneo a proseguire i lavori del partito in assenza di Lenin.
Fu allora che si decise di dare il nome di "segretario
generale" al titolare del nuovo posto, per accrescerne il
prestigio e per distinguerlo dagli altri segretari. Col passare del
tempo Lenin s'accorse che Stalin aveva concentrato nelle sue mani
"un potere illimitato", sia nell'ambito del partito che
dello Stato. Per questo propose, senza fare nomi, di sostituirlo.
Difficilmente però avrebbero potuto sostituirlo o Kamenev, che nel
Testamento vengono ricordati da Lenin per il loro comportamento
tenuto nel 1917, allorché si opposero alla sollevazione armata,
divulgando presso un giornale non comunista la decisione segreta del
partito. Tuttavia, nonostante questa defezione, sia l'uno che
l'altro erano rimasti membri del CC e dell'ufficio politico. Kamenev
era addirittura vicepresidente del consiglio dei commissari del
popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, mentre Zinoviev era
presidente del comitato esecutivo del Komintern. Era stato proprio
Lenin ad appoggiare la candidatura di Kamenev, in seno al CC,
nell'aprile del 1917, a motivo dell'ascendente su certi strati
sociali popolari che unanimemente gli si riconosceva. Lenin non ha
mai accettato di considerare il tradimento dei due come un
"crimine personale". Peraltro nel Testamento egli dice a
chiare lettere che non si poteva rimproverare loro tale
comportamento "più di quanto si possa rimproverare a Trotski
il suo non-bolscevismo". Quanto a Trotski, Lenin conosceva bene
la lunga, complessa e tortuosa lotta ch'egli aveva condotto contro
il bolscevismo, ma sapeva anche che ciò non dipendeva tanto dai
tratti negativi della personalità egocentrica di Trotski, quanto
dal fatto ch'egli rifletteva l'umore di certi militanti del partito
e di vasti strati sociali. Grazie al suo talento d'oratore, egli
conosceva i modi di galvanizzare quelle masse (specie i più
giovani) sensibili alla fraseologia di sinistra. Trotski era senza
dubbio una personalità di rilievo: era stato, nel 1922, membro
dell'ufficio politico, commissario del popolo alla difesa e alla
marina militare, presidente del consiglio militare rivoluzionario
della Repubblica. Il partito lo aveva anche incaricato di svolgere
diverse funzioni nell'ambito dell'economia nazionale, anche se -
come dice Lenin nel Testamento - "la sua eccessiva sicurezza e
infatuazione per l'aspetto puramente amministrativo degli
affari" rischiava di condurre "troppo lontano". Lenin
sapeva bene che a Trotski mancavano alcune qualità politiche
fondamentali, quali per esempio, la duttilità con gli uomini, il
gusto della tattica, la capacità di manovra eccetera. Probabilmente
Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era in grado di
sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che, allargando la
partecipazione agli organi di direzione politica, l'esigenza di
avere un leader con altissime capacità sarebbe venuta meno.
Sottoponendo tutti i leader a un maggiore controllo e facendo
ruotare le cariche, il problema della successione sarebbe stato meno
gravoso. Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi
alla lettera del 28 dicembre sul carattere legislativo delle
decisioni del Gosplan, Lenin disse ch'era difficile trovare in una
sola persona la combinazione di queste qualità: solida preparazione
scientifica in uno dei rami dell'economia e della tecnologia,
visione d'insieme della realtà, forte ascendente sulle persone,
capacità organizzative e amministrative. Ma forse -diceva ancora
Lenin- se si fossero rispettate le sue condizioni, non ci sarebbe
stato bisogno di cercare una persona del genere. D'altra parte egli
si rifiutò di designare un proprio successore alla guida del
partito. Nel Testamento Lenin cita altri due leader, Bucharin e
Piatakov. Del primo esprime due giudizi apparentemente
contraddittori. Da un lato infatti afferma che "non è soltanto
il maggiore e il più prezioso teorico del partito, è anche, a
ragione, il compagno più benvoluto"; dall'altro però sostiene
ch'egli non ha mai ben compreso la "dialettica" e che le
sue concezioni del marxismo sono un po' "scolastiche". In
effetti, la posizione assunta da Bucharin durante la conclusione
della pace di Brest-Litovsk con la Germania (egli, insistendo sul
rifiuto delle condizioni di pace tedesche, rischiò di portare la
repubblica allo sfascio), era una testimonianza esplicita della sua
carente dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo stesso
Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato "scolastica ed
eclettica" l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva
condotto in alcuni capitoli del suo libro "L'economia del
periodo di transizione". Quanto a Piatakov, Lenin gli
riconosceva "volontà e capacità notevoli", ma anche la
stessa tendenza di Trotski ad accentuare l'aspetto amministrativo
(autoritario) delle cose, per cui non si poteva "contare su di
lui su una seria questione politica". Tuttavia, sia per questo
caso che per quello precedente, Lenin sperava che i difetti
avrebbero potuto, col tempo, essere superati: in fondo Bucharin
aveva solo 34 anni e Piatakov 32; si poteva quindi pensare che i
due, col tempo, avrebbero potuto costituire un tandem vincente,
benché al momento i leader più importanti fossero Trotski e
Stalin. Che cosa accadde dopo che la Krupskaia presentò alla
commissione del CC il Testamento di Lenin? La commissione era
composta da Stalin, Kamenev, Zinoviev e altri ancora. Il plenum del
CC del 21 maggio 1924 adottò la risoluzione, dopo aver ascoltato il
rapporto di Kamenev, di divulgare il contenuto della
"Lettera" non alla seduta dello stesso congresso, ma
separatamente, alle riunioni delle varie delegazioni. Si precisò
anche che i documenti di Lenin non sarebbero stati riprodotti, e per
questa ragione non vennero pubblicati. I rapporti sulla
"Lettera" vennero fatti alle delegazioni da Kamenev,
Zinoviev e Stalin. Stando alla loro interpretazione, Lenin,
riferendosi alla rimozione di Stalin dalla funzione di segretario
generale, la considerava come un'ipotesi di cui tener conto, non
come una necessità. In fondo Lenin non aveva trovato niente di
preciso, di oggettivo, da rimproverare a Stalin: la sua riserva
verteva su questioni di carattere soggettivo (anche se, ma questo
non fu mai sottolineato, egli le riteneva particolarmente gravi,
avendo intuito che si stavano trasformando in un problema politico).
Kamenev comunque espose il contenuto della "Lettera" in
modo da far credere che soltanto i tratti personali del carattere di
Stalin erano stati messi in discussione e non anche il fatto ch'egli
aveva concentrato su di sé un enorme potere. Dal canto suo, Stalin
giurò di tener conto delle osservazioni critiche mossegli da Lenin.
Alcuni storici hanno sostenuto che non si provvide a sostituire
Stalin perché si temeva che il suo posto l'avrebbe preso Trotski,
il quale, non meno di Stalin, aspirava a una leadership maggiore in
seno al partito e in più era di tendenza "menscevica". Ma
questa versione dei fatti contrasta proprio con l'affermazione di
Lenin secondo cui Trotski era caratterizzato dal suo
"non-bolscevismo": il che doveva escludere a priori la
proposta di una sua candidatura a un posto così importante. Questo
Testamento avrebbe sicuramente meritato una più attenta
discussione, ma non essendo stato riprodotto, nessun delegato ebbe
mai modo di leggerlo personalmente. In sostanza, il dibattito venne
indirizzato unicamente sulle proposte di Lenin riguardanti la
struttura organizzativa degli organi dirigenti del partito. Trotski
s'era allora risolutamente opposto all'idea di ampliare il CC agli
operai. Formalmente però la proposta di Lenin venne accettata. Il
XII congresso del partito (1923) fece passare il numero dei membri
del CC da 27 a 40; il XIII congresso (1924) li portò a 53.
Tuttavia, il progetto di Lenin di associare gli operai e i contadini
alla direzione del partito non si realizzò. Nel 1927, il XV
congresso adottò la risoluzione di pubblicare la
"Lettera" di Lenin in una Raccolta delle sue opere, ma poi
il testo venne pubblicato solo in un "bollettino segreto".
Nell'ottobre dello stesso anno, al plenum del CC, Stalin
parzialmente citò e commentò nel suo discorso la
"Lettera" di Lenin. Il discorso venne poi inserito nelle
Opere di Stalin in maniera sintetica: totalmente esclusi furono i
passaggi relativi alla proposta della sua rimozione. Durante il
periodo della dittatura staliniana il Testamento fu addirittura
considerato inesistente, benché nel 1927 fosse apparso all'estero
per opera di alcuni simpatizzanti trotzkisti. Sarà solo nel 1956
che la rivista Kommunist pubblicherà integralmente questo
testamento politico, che ora si trova anche nella Va edizione delle
Opere complete di Lenin (in lingua russa).Nel 1957 e nel 1963
apparvero altre due importanti testimonianze a favore
dell'autenticità del documento, di una delle segretarie di Lenin,
L.A. Fotieva: Ricordi su Lenin e Diario delle segretarie di turno di
Lenin. |
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