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Dissero: Cercate in via Gradoli
Risposero: Moro non ci serve vivo
Si chiamava l’Anello. Era una struttura dei servizi segreti mai
scoperta prima. Oggi da documenti inediti emerge che gestì il
rapimento Cirillo, fece fuggire Kappler. E scoprì il
"covo" delle Br, mentre il presidente dc era nelle mani
dei terroristi
di Paolo Cucchiarelli
Roma.
È la chiave del caso Moro. Cercata, invano, per anni. Oggi
comincia a emergere. E offre nuove spiegazioni non solo di quel
sequestro, ma anche di tanti altri affari neri d’Italia. Aiuta a
ricomporre i frammenti della tragedia del presidente democristiano,
rapito 25 anni fa dalle Brigate rosse, ma anche del caso Cirillo,
della fuga di Kappler, di traffici di armi e di petrolio. Dal
dopoguerra alla metà degli anni Ottanta ha operato in Italia un
superservizio segreto, clandestino, alle dipendenze (informali)
della presidenza del Consiglio. Nome in codice: l’Anello. Questo
superservizio, pochi giorni dopo il rapimento di Moro, individua il
"covo" br di via Gradoli, a Roma, comunica la notizia a
Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, e a un dolente Francesco
Cossiga, ministro dell’Interno. Ma l’ordine è: restare fermi.
"Moro vivo non serve più a nessuno", è la conclusione di
Andreotti.
L’Anello e le sue attività sono oggetto di un’inchiesta in via
di conclusione a Roma. Il pubblico ministero Franco Ionta ha da poco
chiesto al giudice per le indagini preliminari di archiviare il
caso, poiché ormai nessun reato è ipotizzabile o perseguibile,
anche perché in molti casi è già scattata la prescrizione. Ma è
stata la Procura di Brescia a imbattersi per prima in una misteriosa
struttura, chiamata "Noto Servizio", di cui si faceva
cenno in alcuni dei documenti ritrovati anni fa in un archivio
abbandonato di via Appia Nuova, a Roma, dove erano state stivate
alla rinfusa carte dell’Ufficio Affari Riservati (il progenitore
del servizio di sicurezza civile, il Sisde). Del "Noto
Servizio" – in realtà oscuro e assolutamente ignoto – si
è parlato in pubblico per la prima volta nel novembre 2000, quando
la procura di Brescia invia alla Commissione parlamentare sulle
stragi un rapporto del perito Aldo Giannuli, lo scopritore della
"discarica" dei servizi sull’Appia Antica.
Oggi il "Noto Servizio" ha un nome e un volto: è l’Anello,
organizzazione clandestina degli apparati di sicurezza, operativa
dal 1948 alla metà degli anni Ottanta, formata da ex ufficiali
badogliani, ex repubblichini, imprenditori, faccendieri,
giornalisti, in grado di reclutare (almeno part-time) uomini della
malavita e della criminalità organizzata. Personaggi di punta dell’Anello,
negli anni cruciali del caso Moro e del rapimento Cirillo, sono
Adalberto Titta, il sedicente "colonnello del Sismi" che
trattò con i camorristi la liberazione dell’assessore
democristiano Ciro Cirillo; il senatore missino Giorgio Pisanò; il
faccendiere Felice Fulchignoni; l’imprenditore Sigfrido Battaini;
il religioso Padre Enrico Zucca, entrato nelle cronache per aver
trafugato, nell’immediato dopoguerra, la salma di Benito Mussolini
a Milano.
Titta è, in quegli anni drammatici, il vertice operativo della
struttura. Un uomo fin troppo loquace, un po’ guascone, ex pilota
nella Repubblica sociale. Muore d’infarto dopo la liberazione di
Cirillo, mentre è impegnato in una delicata missione legata proprio
a questo caso. Tanto delicata da suscitare i sospetti di una morte
non del tutto naturale: i servizi di sicurezza francesi mandano a
misurare la lunghezza del cadavere, per accertarsi che sia proprio
Titta, e i carabinieri fanno qualche indagine dopo alcuni esposti
che accennavano a un omicidio mascherato da malore.
L’Anello, del resto, era specializzato proprio in omicidi coperti
da morte naturale e da incidenti stradali. Ma, più in grande, si
occupava dell’economia parallela del petrolio, che serviva a
finanziare le forze politiche più "affidabili" e
sinceramente anticomuniste. Tra il 1975 e il 1976 l’Anello si dà
da fare addirittura per far nascere una nuova Dc, in grado di
contrastare l’apertura a sinistra preparata da Aldo Moro: è la
breve avventura del Nuovo partito popolare, che divenne poi l’oggetto
principale, con riferimenti alle forniture militari alla Libia, di
un famoso dossier segreto, chiamato "Mi.Fo.Biali", oggetto
di ricatti trasversali che coinvolsero anche il giornalista di Op
Mino Pecorelli.
IL SUPERTESTIMONE. L’Anello, nella sua lunga storia, ha
avuto una diretta forma di dipendenza dalle istituzioni politiche, a
cominciare dalla presidenza del Consiglio. Michele Ristuccia, uno
degli aderenti alla struttura, classe 1941, già funzionario della
Fiera di Milano, grande amico di Adalberto Titta, negli
interrogatori dell’inchiesta afferma a chiare lettere che vi erano
persone del ministero della Difesa e dell’Interno che
"agevolavano" l’attività dell’Anello, ma che esso
"dipendeva direttamente dalla presidenza del Consiglio. La sua
gestione è stata monopolio democristiano, tranne che nell’ultimo
periodo, nel quale suppongo che anche il Psi sapesse, in quanto mi
risulta che avesse fatto alcune richieste". I componenti dell’Anello,
continua a verbale il supertestimone Ristuccia, avevano in dotazione
"un tesserino sulla base del quale era dovuta a loro
cooperazione e immunità da responsabilità penali in cui avrebbero
potuto incorrere per motivi di servizio. Preciso che non so se tutti
i membri dell’Anello avessero questo tesserino, ma Titta
certamente lo aveva e io l’ho potuto personalmente vedere, ricordo
che aveva l’intestazione della presidenza del Consiglio dei
ministri".
Operativamente, i componenti della struttura si appoggiavano
prevalentemente ai carabinieri, ma anche al Sid, il servizio segreto
militare di quegli anni. L’Anello poteva contare su un ufficiale
dei carabinieri operativo a Milano, che aveva un ufficio in via
Statuto; un altro ufficio era a Roma. "Battaini", è
scritto in una delle informative sull’attività dell’Anello,
"dispone di notevoli masse di denaro e tiene il proprio
deposito di armi, munizioni e automezzi, presso la caserma dei
carabinieri di via Moscova".
Andreotti risulta il principale beneficiario politico della
struttura, almeno secondo quanto si afferma in più punti nelle
"veline" agli atti dell’inchiesta. Anche alcune
testimonianze affidano al sette volte presidente del Consiglio un
ruolo guida per l’Anello. Fu Andreotti a volerla, con questa
denominazione, per fronteggiare il "notevole caos" che c’era
negli anni Settanta nei vari organismi che si occupavano di
intelligence, sia per inefficienza, sia per concorrenza. Andreotti
decise di creare una struttura "pilota" che traghettasse
questo mondo dal caos a servizi segreti più adeguati. Nascerebbe da
qui il nome di Anello, adottato, secondo alcune testimonianze, dalla
metà degli anni Sessanta: la struttura avrebbe dovuto essere
infatti la congiunzione – l’anello appunto – tra le molteplici
e spesso confuse strutture parallele del dopoguerra e i servizi di
sicurezza istituzionali. I testimoni ascoltati nell’inchiesta
hanno confermato che il compito principale dell’Anello era quello
di "arginare" con tutti i mezzi l’avanzata delle
sinistre. Anche Francesco Cossiga era a conoscenza dell’Anello,
testimonia Ristuccia. "Una volta l’onorevole Andreotti,
secondo quanto mi ha raccontato Adalberto Titta, fece intervenire l’Anello
a beneficio del governo Craxi".
La struttura poteva contare su un buon numero di uomini (164 nel
1974) che costavano diversi miliardi di lire l’anno. Tra la fine
degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, almeno secondo i
racconti dei testimoni dell’inchiesta, la struttura si era
preparata per sequesti (poi non realizzati) di alcuni personaggi
politici. Tra questi, il sindaco di Milano Aldo Aniasi, il leader
del Movimento studentesco Mario Capanna e l’editore Gian Giacomo
Feltrinelli. Ma è il caso Moro l’episodio più clamoroso nella
storia segreta dell’Anello.
VIA GRADOLI. "Ricordo che il Titta mi accennò, già
durante il sequestro Moro e me lo confermò poi successivamente, che
erano stati contattati per adoperarsi per la liberazione di Moro,
così come per il sequestro Cirillo". Questa è la
testimonianza di Ristuccia, uno dei principali collaboratori di
Titta. "Mi disse addirittura di aver avuto contatti con
appartenenti alle Br e che questi avevano espresso sfiducia verso l’Arma
dei carabinieri e la Dc. Mi disse", continua a verbale
Ristuccia, "che gli uomini delle Br con i quali erano entrati
in contatto non erano riusciti a trovare gli interlocutori adatti e
non si fidavano delle istituzioni. Titta sosteneva di aver parlato
di ciò con Cossiga e con l’onorevole Andreotti, ma che quest’ultimo
(si era espresso) con valutazioni negative sull’eventualità del
rilascio dell’ostaggio, bloccando così le attività che intendeva
intraprendere. Ricordo che lo stesso giorno in cui si seppe che nel
lago della Duchessa doveva trovarsi il cadavere di Moro, mi disse in
tempo reale che si trattava di una "bufala". Ciò
ovviamente me lo disse prima che ci fosse la smentita".
Lo stesso testimone racconta: "Io venni informato da Titta che
il presidente della Dc correva seri rischi di sequestro. Sequestro
durante, il Titta mi disse di essere a conoscenza del luogo dove
Moro era detenuto, lo aveva detto anche ai senatori Andreotti e
Cossiga. Il Titta mi disse, sequestro durante, che Moro era detenuto
in via Gradoli e, come ebbi occasione di accennarvi, lo seppe
direttamente dalle Brigate rosse. Non posso dirvi come entrò in
contatto con le Br, ma lui mi disse di essere stato fortemente
ostacolato sul caso Moro, proprio dal potere politico dal quale
dipendeva. Come già dettovi, in particolare alla richiesta di poter
intervenire su via Gradoli, il Titta ricevette un secco diniego da
Andreotti che, mi disse, gli fece capire che non era auspicabile una
soluzione positiva del processo, la frase che ricordo distintamente
è: "Moro vivo non serve più a nessuno". Preciso che
tutte queste notizie io le ho apprese sequestro durante".
È la testimonianza di un personaggio che riferisce racconti di un
morto, che non può più né confermare né smentire. Forse è
troppo poco per imbastire un’azione giudiziaria, ma certo è un’ulteriore
smagliatura in una vicenda, il sequestro Moro, piena di elementi
oscuri. Nelle dichiarazioni di Michele Ristuccia vi è certamente un
errore: l’appartamento di via Gradoli è indicato come la prigione
di Moro, mentre è appurato che fosse una base delle Br, ma che non
ospitò il sequestrato. È lo stesso errore compiuto, in diverse
dichiarazioni, da Bettino Craxi. Titta aveva una indicazione che
riguardava la sola via Gradoli, oppure il capo operativo dell’Anello
aveva cambiato in Gradoli una diversa indicazione della prigione al
fine di tutelarla?
Dopo che la politica blocca l’intervento a favore di Moro, le
notizie raccolte dall’Anello potrebbero aver imboccato un percorso
autonomo. La famiglia Moro e il Vaticano continuano a cercare di
liberare il prigioniero. E il 9 maggio 1978 il Vaticano tenta di
scambiare il presidente della Dc con 50 miliardi di lire. Era già
noto che padre Zucca – che oggi scopriamo essere stato un
importante esponente dell’Anello – si era dato da fare per
raccogliere un’ingente somma di denaro dopo essere stato
contattato, in confessionale a Milano, da un uomo delle Br. Questo
episodio fu rivelato dal settimanale L’espresso già il 26 maggio
1978. Recentemente, il 12 marzo 2003, Giulio Andreotti rivela che il
9 maggio di 25 anni fa (il giorno in cui fu ritrovato il cadavere di
Aldo Moro), il Vaticano era pronto a pagare un ingente riscatto per
liberare il prigioniero, ma che alla fine tutto fallì. È evidente
che il tentativo di cui parla Andreotti e quello dell’Anello,
tramite padre Zucca, hanno molte analogie: stessa data, il 9 maggio;
stessa città, Milano; stesso contatto, "esponenti
dissidenti" delle Br, stesso mezzo, il confessionale.
KAPPLER E CIRILLO. L’Anello ebbe un ruolo anche nella
vicenda della fuga di Herbert Kappler, il colonnello delle Ss
responsabile dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, fatto uscire dall’ospedale
militare del Celio, dopo un accordo politico ed economico con la
Germania. Fu Titta e non la moglie di Kappler, Annelise – come si
disse – ad accompagnare Kappler al confine. Nelle carte dell’inchiesta
romana c’è la testimonianza del medico che visitò Kappler prima
che questi fosse portato oltre confine.
È nel caso Cirillo, però, che l’Anello giocò in pieno le sue
carte. Ciro Cirillo, assessore campano della Dc, fu rapito dalle Br
a Napoli nel 1981. Per Cirillo, a differenza che per Moro, la
Democrazia cristiana e lo Stato accettarono di trattare con i
terroristi, anzi lo fecero attraverso la criminalità organizzata.
È Adalberto Titta in persona che tratta in carcere con Raffaele
Cutolo, il capo della Nuova camorra organizzata (Nco). Titta entra
nel carcere di Ancona per concordare direttamente con Cutolo la
liberazione di Cirillo, porta a cena fuori dal carcere il capo
camorrista e gli mostra un foglio di scarcerazione per invogliarlo a
riprendere i contatti con le Br che erano stati aperti già nel
1978, durante la vicenda Moro. L’Anello è la chiave che unisce le
due vicende. E spiega alcune affermazioni di Cutolo, che ha più
volte ripetuto di aver avuto un ruolo anche nella vicenda Moro,
oltre che in quella Cirillo. Personaggio di congiunzione tra l’Anello
e il boss della Camorra è Francesco Gangemi, esponente di primo
piano della Dc calabrese, avvocato di Raffaele Cutolo, ma anche
grande amico di Adalberto Titta. Fu proprio Gangemi – affermano
alcuni testimoni dell’inchiesta – a presentare Cutolo a Titta
per permettergli di intervenire nell’affare Cirillo. "Il
Cutolo non avrebbe mai accettato di prendere parte ad alcuna
trattativa se il Gangemi non avesse garantito per il Titta",
assicura il supertestimone Ristuccia. Il legame
Titta-Cutolo-Gangemi-Anello può dare un contesto ad alcune
sibilline affermazioni fatte dal capo della Nco. Nel 1993 Cutolo
diceva, a proposito della vicenda Cirillo, che in tanti "fecero
la fila da me, ad Ascoli Piceno, e quel Titta dei servizi segreti
era disposto in cambio dei miei favori a far eliminare i miei
nemici". E aggiungeva: "Avrei potuto salvare la vita dell’onorevole
Moro perché, grazie a informazioni ottenute da alcuni membri della
banda della Magliana, avevo saputo dove era la sua prigione. Mi
incontrai con il sedicente "inviato di Cossiga" che mi
promise persino sconti di pena. Ma in seguito ricevetti una visita
del mio fedele luogotenente Vincenzo Casillo, latore di un messaggio
di alcuni politici campani: "Don Rafè, facitevi ’e fatte
vuoste"".
L’inviato di Cossiga, rivela Cutolo nel volume di Giuseppe
Marrazzo Il camorrista. Vita segreta di don Raffaele Cutolo,
potrebbe essere Nicola Lettieri, il sottosegretario all’Interno
che durante i 55 giorni del sequestro guidava il "comitato di
crisi" del Viminale. Cutolo avrebbe incontrato Lettieri mentre
era latitante, dato che era fuggito dal manicomio criminale di
Aversa il 3 febbraio 1978. Certo è che Cutolo dice di essere stato
in possesso di una lettera di ringraziamento di Lettieri e di un
biglietto di accompagnamento dell’onorevole Attilio Ruffini,
sequestrati dai carabinieri al momento dell’arresto, nel rifugio
di Albarella dove aveva trascorso l’intera latitanza. I
carabinieri, imbarazzatissimi, dissero poi che la lettera e il
biglietto erano caduti a un maresciallo durante la perquisizione
della casa-covo. Nessuno ha mai saputo – ufficialmente – che
cosa contenessero le due missive.
L’anno dopo, nel 1994, davanti alle telecamere di Mixer Cutolo
raccontò di aver ricevuto, mentre era latitante ad Albarella e
mentre Moro era nelle mani delle Br, la visita di Nicolino Selis,
affiliato della Nco, suo rappresentante a Roma e contemporaneamente
boss della banda della Magliana, per conto della quale controllava
la zona che da Acilia arriva al mare. Selis, dice Cutolo,
"aveva saputo dove si trovava la prigione di Moro e mi chiese
se volessi salvarlo". Cutolo in quella occasione aggiunse di
essersi consultato con un avvocato che a sua volta si rivolse a dei
politici. Il capo della Nco ha detto di aver saputo successivamente
da un suo fedelissimo, Enzo Casillo ("Morto con la tessera dei
servizi segreti in tasca") che "importanti politici
nazionali erano molto preoccupati del fatto che Moro avrebbe potuto
salvarsi". In quell’occasione si mossero anche due sacerdoti
calabresi. Selis non può certo confermare: scomparso nel 1981, il
suo cadavere non è mai stato trovato; probabilmente sotterrato ad
Acilia, vicino al greto del Tevere, è stato coperto con la calce
viva.
Durante i 55 giorni, quindi, Cutolo latitante sostiene di aver
ricevuto l’avvocato Gangemi, l’inviato di Cossiga, Lettieri, e
il suo rappresentante nella banda della Magliana, Nicolino Selis,
che aveva scoperto dove era la prigione di Moro: presumibilmente
nella sua zona di controllo, cioè tra Aprilia e il mare. Cutolo
trascorse quei mesi di latitanza a casa di un vecchio contadino di
Albanella, vicino a Pestum. L’uomo si chiamava, ironia della
sorte, Nicola Lettieri, come il probabile "inviato di Cossiga".
Finirà ucciso anche lui: da chi – dirà Cutolo – "credeva
di trovare nella sua casa di campagna qualche tesoro da me
nascosto".
IL VATICANO E IL CONFESSIONALE. Con alcune lettere ad
Andreotti, padre Zucca chiedeva di poter aprire una trattativa. Il
religioso milanese affermava di essere "sicurissimo" che
le Br avrebbero liberato Moro per soldi. Diceva anche di aver
incontrato un brigatista in una chiesa di Milano "verso la fine
di aprile" (Moro era stato rapito il 16 marzo). L’incontro-colloquio
si era svolto in confessionale e in quell’occasione si era parlato
di soldi. Il brigatista avrebbe anche proposto a Zucca di incontrare
Moro. I soldi sarebbero stati depositati in una banca svizzera.
L’inchiesta sull’Anello, svolta dal maggiore del Ros-carabinieri
Massimo Giraudo (lo stesso ufficiale che ha condotto l’inchiesta
sulla strage di piazza Fontana che ha portato alle prime condanne
del gruppo di Ordine nero dopo oltre 30 anni), ha dimostrato che
già il 31 marzo 1978 Zucca aveva confidato a un amico
(presumibilmente Adalberto Titta) di essere stato avvicinato al fine
di aprire una trattativa con le Br. Un appunto del Sisde del 4
aprile 1978 dà conto di questa notizia.
Michele Ristuccia ha confermato il contatto Anello-Br: "Titta
mi disse che le Br non volevano condurre la trattativa con organi di
polizia ufficiali o esponenti politici. In merito alle mancate
risposte di Andreotti, mi ricordo che non le diede a voce, al Titta,
facendo bene intendere che Moro vivo non interessava".
Francesco Cossiga ha detto di essere stato informato "anni
dopo" del tentativo messo a punto dal Vaticano il 9 maggio per
cercare di liberare Aldo Moro e di cui ha parlato per la prima volta
Andreotti in marzo. "Seppi da lui che questa possibilità di
riscatto era la ragione del suo ottimismo quando lo andai a trovare
la sera dell’8 maggio 1978. In Vaticano si avevano ragioni per
credere di avere contatti con le Br. Da quello che compresi questo
contatto passava per la rete dei cappellani carcerari", dice
oggi Cossiga, che come Andreotti smentisce categoricamente a Diario
di conoscere l’Anello e Titta. Ma c’è un altro elemento che si
connette a questa vicenda, dando un senso concreto ad alcuni dubbi
che ancora oggi dominano i pensieri della famiglia Moro.
Qualcuno, mai identificato, la mattina del 9 maggio 1978 avrebbe
dovuto entrare nella prigione di Moro e portargli la carezza, il
conforto del Papa, e poi garantire la liberazione dell’ostaggio e
il contemporaneo pagamento del riscatto. Poche ore più tardi,
invece, Aldo Moro sarebbe stato ritrovato ucciso in via Caetani.
Comunque l’Anello predispose i 50 miliardi di cui parla Andreotti
per pagare la mattina del 9 maggio il riscatto che avrebbe liberato
Moro. Se è finita come è finita qualcosa è andata male o qualcuno
non ha rispettato i patti. Chi interruppe bruscamente la trattativa
in corso? L’Anello fu bloccato da qualcuno che non voleva che Moro
uscisse libero dalla prigione potendo raccontare che il suo luogo di
prigionia era stato individuato, ma si era scelto di non
intervenire? E di trattare segretamente tramite quelli che un
comunicato delle Br (il numero 4 del 4 aprile, quando Zucca aveva
già il suo contatto aperto con le Br) definisce i "misteriosi
intermediari"?
Afferma la sentenza che ha mandato assolto, in primo grado, Giulio
Andreotti dall’accusa di essere il mandante politico dell’omicidio
del giornalista Mino Pecorelli: "Qui preme sottolineare l’articolo
Vergogna buffoni, pubblicato su Op del 16 gennaio 1979, e quindi
poco più di due mesi prima dell’omicidio, in cui Carmine
Pecorelli preannunciava una rivisitazione di tutto il caso Moro, con
esplicito riferimento alle trattative con le Br, non andate a buon
fine perché qualcuno non aveva mantenuto i patti e aveva
"giocato al rialzo", pretendendo un prezzo che non poteva
essere accettato. Ma se così è, non può revocarsi il dubbio che
tali circostanze, se vere e portate a conoscenza dell’opinione
pubblica, che pure aveva atteso con ansia la liberazione di Aldo
Moro, avrebbero sicuramente sconvolto il panorama politico italiano,
proprio perché sarebbe chiaramente emerso che il potere politico
non aveva voluto che fosse salvata la vita dello statista".
L’inchiesta sull’omicidio Pecorelli ha evidenziato i rapporti
che si erano stabiliti tra il giornalista di Op e il generale Carlo
Alberto dalla Chiesa, almeno dall’agosto-settembre 1978. Pecorelli
ricevette molte "dritte" dal generale. Tante allusioni di
Pecorelli al fascicolo "Mi.Fo.Biali", nato intorno alla
corruzione della Guardia di finanza per lo scandalo dei petroli, non
sono che riferimenti in codice all’Anello e alla sua azione
sotterranea. E dalla Chiesa, almeno secondo le malevole
testimonianze di Ristuccia, conosceva l’Anello: "Il generale
non faceva parte dell’Anello, conosceva Titta e non ostacolava le
attività dell’Anello, non perché fosse contrario a esse, ma
semplicemente per concorrenza, in quanto", dichiara a verbale
Ristuccia, "non desiderava, specialmente in tema di lotta al
terrorismo, che qualcuno potesse arrivare prima di lui. Ricordo in
particolare il tentativo di catturare Moretti a Milano con un
intervento su un obiettivo, sul quale da tempo stava lavorando anche
l’Anello. L’improvvido intervento del generale ne consentì la
fuga. Conobbi il generale dalla Chiesa in quanto me lo presentò il
Titta appena giunto a Milano". E ancora: "Ricordo (che
Titta, ndr) non apprezzava il generale dalla Chiesa in quanto per
protagonismo avrebbe danneggiato alcune operazioni dell’Anello".
Il generale dei carabinieri Nicolò Bozzo, collaboratore di dalla
Chiesa, ha affermato davanti a un magistrato nel 1993 che dalla
Chiesa era molto interessato da una ipotesi di lavoro: l’esistenza
di una struttura segreta paramilitare, con funzioni organizzative
antinvasione ma che "aveva debordato poi in azioni illegali e
con funzioni di stabilizzazione del quadro interno". Dalla
Chiesa credeva che questa struttura poteva aver avuto origine
"sin dal periodo della Resistenza, attraverso infiltrazioni
nelle organizzazioni di sinistra e attraverso il controllo di alcune
organizzazioni di altra tendenza". Poteva trattarsi di
Gladio-Stay behind. Ma Gladio nasce nel 1954. L’Anello nasce
invece nel 1948.
LE ALLUSIONI DI PECORELLI. Che cosa è accaduto tra la sera
dell’8 maggio 1978 e le prime ore del 9? Pecorelli aveva una sua
ipotesi: "Cossiga era convinto, crediamo (?), che Moro sarebbe
stato liberato, e forse la mattina che il presidente è stato ucciso
era (...) in attesa che arrivasse la comunicazione che Moro era
libero. Moro invece è stato ucciso. In macchina. A questo punto
vogliamo anche noi fare un po’ di fantapolitica. Le trattative con
le Br ci sarebbero state. Come con i Feddayn. Qualcuno però non ha
mantenuto i patti. Moro, sempre secondo le trattative doveva uscire
vivo dal covo (al centro di Roma? Presso un comitato? Presso un
santuario?), i "carabinieri" (?) avrebbero dovuto
riscontrare che Moro era vivo e lasciar andar via la macchina rossa.
Poi qualcuno avrebbe giocato al rialzo, una cifra inaccettabile,
perché si voleva comunque l’anticomunista Moro morto, e le Br
avrebbero ucciso il presidente della Democrazia cristiana in
macchina, al centro di Roma, con tutti i rischi che una simile
operazione comporta. Ma di questo non parleremo, perché è una
teoria cervellotica campata in aria. Non diremo che il legionario si
chiama "De" e il macellaio Maurizio".
Il "De" (un modo per alludere e tutelare tipico di
Pecorelli) secondo tutti gli studiosi del caso Moro è Giustino De
Vuono, un ex legionario, calabrese, legato alla criminalità
organizzata, di cui non si sa più nulla da anni. De Vuono venne
indicato come uno dei possibili componenti del commando di Via Fani
nel "volantone" diffuso dal Viminale subito dopo il 16 di
marzo. Per anni si è favoleggiato sulla presenza della ’Ndrangheta
nel commando che rapì Moro e uccise i cinque uomini della scorta.
Ci sono state decine di riferimenti a questa presenza e i sospetti
maggiori hanno riguardato De Vuono, grande specialista di armi che,
secondo alcuni testimoni, era effettivamente presente in via Fani.
"De" secondo Pecorelli partecipa alla uccisione insieme a
"Maurizio" (il nome di battaglia di Mario Moretti). Ma un
uomo dell’Anello, almeno secondo il nostro testimone Ristuccia,
faceva parte del commando di via Fani: "Il Titta mi disse che
anche nel commando che aveva operato in via Fani era presente un
calabrese che lavorava per l’Anello meridionale, ma che era stato
più volte impiegato da lui".
La famiglia Moro, Maria Fida in particolare, ha il dubbio che Moro
sia stato liberato dalle Br e ucciso da qualcun altro. Da chi?
"L’unica spiegazione", ha detto l’ex presidente della
Commissione stragi, Giovanni Pellegrino, in occasione del
venticinquesimo anniversario della morte del presidente della Dc,
"è quella che aveva pensato Craxi. Cioè che non sono i
carcerieri a decidere l’esecuzione. L’ordine viene da fuori. E
non sono stati loro neanche gli esecutori materiali. Entra in campo
la complessità di più trattative che tendono da un lato alla
salvezza di Moro e dall’altro alla neutralizzazione di quello che
aveva potuto dire alle Br.
La vicenda alla fine precipita perché queste trattative si
ostacolano e fanno emergere nei custodi finali di Moro l’idea che
la soluzione politicamente più opportuna fosse la soppressione di
un ostaggio, cioè il Moro vivo, per poter neutralizzare gli effetti
destabilizzanti del secondo ostaggio, cioè le cose che Moro aveva
detto alle Br". Oppure, molto più semplicemente, le Br
uccidono Moro per uscire da una situazione senza sbocchi politici se
non la liberazione, vista la mole di iniziative che quella mattina
del 9 maggio erano in corso. Oppure c’è stata una cogestione:
alla fine, per chi ha trattato, sia dalla parte delle Br, sia da
quella dello Stato, la soluzione migliore, la più concreta e
realistica dal punto di vista politico, è la morte di Moro. Ecco il
perché delle tante incongruenze sulle modalità della morte e anche
sul fatto che fosse stato detto o no a Moro che il suo destino era
segnato.
Ma c’è stato lo zampino di qualcuno che ha giocato al rialzo?
Giustino De Vuono è scomparso nel nulla. Resta soltanto l’estremo
messaggio di Carmine Pecorelli, che fa nascere nuovi interrogativi
su questa storia dell’Anello e su questa inchiesta che la procura
di Roma si avvia ad archiviare. Pochi giorni prima di essere
assassinato (era il 20 marzo 1979), Pecorelli dedicò al delitto
Moro l’ultimo suo inconfondibile articolo. Intitolato: Aldo Moro
un anno dopo.
Pieno di domande allusive, di sottintesi e probabilmente di
messaggi, sarcastici e cifrati. Cita il lago della Duchessa, il
falso comunicato Br del 18 aprile 1978, quanto il falsario Toni
Chichiarelli, vicino alle Br e alla banda della Magliana, stila un
falso documento che dà Moro per "suicidato" e sepolto nei
"fondali limacciosi" di quel lago. Toni Chichiarelli
seguiva da tempo – ci sono testimoni – il giornalista. "Chi
è stato interrogato nel Palazzo? La catena ha rivelato in ogni suo
anello l’esistenza di connivenze all’interno della struttura
dello Stato, nel cuore dello Stato". Un messaggio, un
avvertimento, o una firma. Diventerà decifrabile poche ore dopo,
quando un colpo di pistola in bocca chiuderà la vita di Carmine
Pecorelli.
Paolo Cucchiarelli, giornalista parlamentare, è autore, tra l’altro,
di "Lo stato parallelo" (con Aldo Giannuli, Gamberetti
editrice, 1997). In questa inchiesta anticipa alcuni elementi di un
più ampio lavoro che sarà pubblicato in un volume intitolato
"Morte di un Presidente. Perché l’omicidio Moro rimarrà un
mistero". |